di Geraldina Colotti
L’assassinio di George Floyd, le sue parole mentre moriva soffocato sotto il ginocchio del poliziotto a Minneapolis, hanno avuto un forte impatto anche simbolico in questi tempi di coronavirus - un male che ti toglie, letteralmente, il respiro. L’asfissia del quarantaseienne afroamericano è diventata quella di tutti gli oppressi dal sistema capitalista, messo a nudo da questa pandemia. E il ginocchio del poliziotto, usato per bloccare a terra la sua vittima, è stato rappresentato migliaia di volte in tutte le piazze che hanno denunciato la violenza razzista, strutturale al modello nordamericano, e senza freni dopo l’arrivo di Trump.
A fianco di quella immagine, ne emerge però un’altra, ignorata o vilipesa dai grandi media occidentali perché indica un messaggio di resistenza all’oppressione: il ginocchio a terra del soldato del popolo che, fucile in spalla, attende con coraggio l’attacco del nemico per respingerlo. “Ginocchio a terra, fucile in spalla” è infatti una delle esortazioni con cui si concludono le manifestazioni o i comizi in Venezuela.
Un indirizzo avviato dal movimento di ufficiali progressisti guidati da Hugo Chavez, culminato con la sua vittoria elettorale alle presidenziali del 1998, e consolidatosi poi nella rivoluzione bolivariana con l’unione civico-militare. Un’eredità della “guerra di tutto il popolo” che ha guidato la resistenza vietnamita all’imperialismo più forte del pianeta nel secolo scorso.
“Siamo una rivoluzione pacifica, però armata”, affermava sovente Chavez. E Nicolas Maduro, che ne ha seguito le orme, precisa oggi in concreto il significato della parola pace, possibile solo se c’è giustizia sociale. Lo ha fatto anche in questi giorni in una conversazione televisiva con il sacerdote Numa Molina nella quale ha richiamato gli slogan dei movimenti negli Stati Uniti: “No Justice No Peace”.
Un concetto emerso nel corso dei congressi internazionali, organizzati a Caracas a partire dal Foro di San Paolo, che hanno fatto infuriare Trump, e che ora vengono utilizzati dai media per accusare Maduro di “finanziare le proteste”. Accade ogni volta che scoppiano movimenti popolari, sia in America Latina che in Europa e che si manifesta l’esigenza, quanto mai necessaria dopo questa pandemia, di un cambio sistemico di modello.
Indubbiamente il Venezuela ha riattizzato e concentrato su di sé la “paura del comunismo” che ha animato lo scontro di classe del secolo scorso. Una demonizzazione che ha motivazioni economiche (le straordinarie risorse che possiede il paese e che redistribuisce attraverso i piani sociali) e geopolitiche (la posizione occupata dal Venezuela nella ridefinizione di un mondo multicentrico e pluripolare), ma che ha anche una forte valenza simbolica.
L’accanimento con cui l’imperialismo cerca di distruggere il socialismo bolivariano da oltre vent’anni è inoltre un riconoscimento del suo indubbio valore, emerso particolarmente in politica estera. Un compito nel quale Maduro ha accompagnato Chavez per molti anni, intrecciando importanti relazioni sud-sud, basate su pari dignità, sulla non ingerenza negli affari interni e sulla “diplomazia di pace”.
Un risultato visibile anche dopo il sistematico picconamento portato dall’imperialismo all’integrazione regionale, teso soprattutto a distruggere l’asse portante del progetto, costituito da Cuba e Venezuela. Una delle intuizioni politiche più felici, e conseguenti alla visione internazionalista delle due rivoluzioni, è stata infatti quella di non limitarsi alle alleanze di governo, ma di tessere legami forti tra le organizzazioni del potere popolare.
In ogni summit internazionale, infatti, si è sempre svolto il vertice dei popoli che, con l’arrivo di Chavez, ha fatto sentire la sua voce direttamente negli incontri ufficiali. Un lavoro di ricucitura difficile e delicato, considerato il livello di frammentazione in cui versano le forze di alternativa dopo la caduta dell’Unione Sovietica. I Congressi mondiali dell’anno scorso hanno però mostrato un accumulo di forza che, pur nelle differenze di contesto e di storia, guarda alla rivoluzione bolivariana (e a quella cubana) come a una speranza concreta di futuro.
Questo, ovviamente, fa paura all’imperialismo, che cerca di applicare le sue lenti mefitiche - affaristiche, golpiste e distorte - all’internazionalismo e alla comunanza di ideali di chi considera necessario e possibile un altro modello di sviluppo.
E così, ecco sparate a tutta pagina le foto di Maduro con Opal Tometi, co-fondatrice del movimento Black Lives Matter, che in Venezuela si è recata come osservatrice alle elezioni parlamentari del 2015, e che – scrive per esempio il portale Primerinforme.com – “Maduro aveva incontrato mesi primi visitando il Black Theater ad Harlem per partecipare al Vertice dei Leader Afrodiscendenti”.
Come se, appunto, la solidarietà fosse un delitto. Come se il messaggio di pace con giustizia sociale che invia al mondo il socialismo bolivariano fosse paragonabile all’azione mercenaria degli USA e dei loro vassalli, pagata con dollari sonanti. E, al riguardo, spicca il killeraggio sistematico del Segretario generale dell’OSA, Luis Almagro che tace sulle violenze in Nordamerica come sui contractor che hanno tentato di entrare via mare in Venezuela, ma non perde occasione per attaccare il governo cubano e quello bolivariano.
Mentre i pescatori di Chuao respingevano l’invasione via mare – ginocchio a terra, fucile in spalla! – Almagro attaccava a testa bassa il governo cubano dalla sua postazione negli USA, partecipando a una nota trasmissione anticastrista, spalleggiato anche da una ricercata venezuelana, che spadroneggia da anni sui media italiani.
Un altro esempio paradigmatico è costituito dalla recente “conferenza internazionale dei donatori”, organizzata via web dalla Spagna e dall’Unione Europea. Vi hanno partecipato oltre 60 paesi di tre continenti, tra i quali gli USA, il Canada e il Giappone e altri stati che non appartengono alla UE, come la Svizzera, così come ONG e organizzazioni internazionali quali l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).
Al centro, nuovamente, la questione dei “migranti e rifugiati venezuelani”. L’aiuto, però, non verrà erogato al governo bolivariano – che sta fornendo assistenza gratuita agli oltre 50.000 connazionali rientrati dai paesi frontalieri -, ma a quei governi come la Colombia, l’Ecuador, il Perù o il Brasile, che sostengono gli Stati Uniti e la sovversione interna in Venezuela.
Infatti, il legittimo governo del Venezuela, quello di Nicolas Maduro, non è stato neanche invitato. In compenso, si sono sprecati i proclami in favore dell’autoproclamato “presidente a interim”, Juan Guaidó, nelle cui capienti tasche sono già finiti svariati miliardi che la rivoluzione bolivariana avrebbe destinato ai piani sociali.
Con la loro proverbiale ipocrisia, i governi capitalisti tolgono il respiro ai migranti e ai lavoratori di casa propria, ma diventano improvvisamente “generosi” se la retorica degli “aiuti” serve ad alimentare i propri loschi affari. Una ipocrisia che maschera, grazie alla potenza del sistema mediatico, le aggressioni imperialiste come l’invasione nordamericana dell’Iraq del 2003, compiuta senza il supporto dell’ONU ma non per questo condannata dalla Corte Penale Internazionale.
“Crimini di lesa umanità”, ha detto il ministro degli Esteri venezuelano, Jorge Arreaza, commentando il battibecco fra Trump e Colin Powell, Segretario di Stato con George W. Bush. Piccato perché l’ex generale ha dichiarato di voler votare per Joe Biden alle presidenziali del prossimo novembre, Trump ha messo in piazza i panni sporchi della Casa Bianca. Con un Twitter al veleno ha accusato Powell, definito “un vero rigido al pari di Biden”, di aver mentito sull’esistenza delle armi di distruzione di massa da parte del governo iracheno, e di aver condotto gli Stati Uniti “alle disastrose guerre del Medioriente”.
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