Palmira: perché il mainstream ha scritto solo della caduta e non della riconquista?


di Maurizio Musolino
La liberazione della città di Palmira rappresenta simbolicamente un momento importante per la rinascita di un paese messo in ginocchio da 5 anni di guerra. L’esercito di Damasco è riuscito, dopo giorni di dura battaglia, a mettere in fuga l’Isis, grazie anche alla collaborazione dei raid aerei russi e alla preziosa presenza di milizie di Hezbollah. Palmira non ha solo un altissimo valore simbolico per la sua storia e per le sue straordinarie bellezze, rappresenta anche un importante snodo verso est, da lì infatti si raggiungono prima Deir El Zor e poi proseguendo a nord Raqqa, la capitale, insieme a Mossoul (in Iraq), del cosiddetto stato islamico.
Ma proviamo ad analizzare come da noi è stata raccontata questa vicenda. Ricordate i titoli in prima pagina e i servizi su tutte le televisioni quando l’Isis entrò a Palmira abbattendo archi e colonne ed uccidendo il responsabile dei beni archeologici? Bene la sua riconquista è passata invece quasi nel più assoluto silenzio, come se l’Isis non fosse quel mostro che è, e una sua importante sconfitta non rappresentasse un avvenimento importante per tutti gli amanti della pace. A denunciarlo non sono solo i “soliti amici della Siria”, bensì anche un grande del giornalismo mediorientale, Robert Fisk, sul quotidiano inglese Indipendent. Fisk sottolinea come dopo la strage di Bruxelles tutto l’Occidente avrebbe dovuto festeggiare per questa pesante sconfitta dell’Isis, invece sulla liberazione di Palmira è calato un assordante silenzio. Ne Obama, né Cameron, né Hollande nè il nostro Renzi hanno fatto sentire la loro voce. Forse perché Palmira rappresenta la sconfitta della strategia statunitense nell’area a vantaggio di Putin, che si conferma insieme all’esercito siriano e alle milizie di Hezbollah come il vero ed efficace nemico dell’Isis.
La riconquista di Palmira segna anche un notevole rafforzamento del ruolo di Bashar el Assad soprattutto nel pieno delle trattative che accompagnano la fragile tregua che pur sembra reggere, e in vista delle prossime elezioni di aprile quando si rinnoverà il parlamento siriano con un coinvolgimento anche di una parte dell’opposizione. Le elezioni legislative in Siria sono previste ogni 4 anni e Bashar El Assad con questa sua decisione, presa sorprendendo molti, vuole riaffermare la legittimità del sistema Paese. Elezioni che dalla scorsa tornata, svoltasi appunto 4 anni fa, eliminano il controllo assoluto che per decenni aveva avuto il partito Bath introducendo una reale possibilità di votare il partito preferito e il candidato desiderato. Ricordo bene quando proprio sotto le ultime elezioni ero a Damasco con una delegazione internazionale guidata da Socorro Gomes, presidente del World Peace Council , la città era letteralmente tappezzata dai manifesti dei vari candidati e delle tante candidate. A questo proposito sfiora il ridicolo la polemica che si è svolta sui banchi delle Nazioni Unite quando, al latere della seduta di ieri, il giornalista di al Jazeera ha chiesto all’Ambasciatore Saudita come mai fosse così critico sulle elezioni del prossimo 13 aprile in Siria chiedendo elezioni assolutamente libere e democratiche, negando però queste nel paese che lui rappresenta. Una domanda che ha mandato su tutte le furie il diplomatico Saudita.
Impegnato in questa tornata elettorale è anche il Partito comunista siriano che conferma il totale sostegno all’attuale presidente ma nello stesso tempo pone con forza il tema dell’uguaglianza sociale e di politiche da mettere in atto in sostegno delle classi operaie e in generale salariale. “In questi ultimi anni”, mi ha spiegato un membro della segreteria nazionale, “l’inflazione si è divorata i salari: prima il cambio lira siriana dollaro era 1 a 50, mentre oggi è a 5000. Il nostro popolo è orgoglioso della resistenza che in questi anni abbiamo opposto all’Isis e ai tanti mercenari che sono venuti a combattere sotto varie bandiere, ma nello stesso tempo è arrabbiato perché non riesce a sopravvivere”. Sarà questo un tema centrale nella campagna elettorale del PC siriano. I comunisti siriani hanno la consapevolezza che la battaglia che vede impegnata la Siria non si combatte solo con le armi, terreno nel quale sono impegnati in prima persona a fianco dell’esercito nazionale, ma anche facendo della Siria un paese della giustizia sociale e della centralità delle politiche nazionali pubbliche, contro voglie di liberismo e di privatizzazioni pur esistenti. Il possibile business della ricostruzione potrebbe essere dietro l’angolo e sarebbe assurdo se ad arricchirsi fossero gli stessi che in questi anni hanno sostenuto le varie bande terroristi.

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