L’“epistemicidio” di Gaza e il collaborazionismo dell’accademia israeliana  

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

Lo scorso lunedì 22 gennaio, 21 soldati inquadrati nell’Israeli Defense Force sono caduti nell’ambito di quello che il portavoce dell’esercito Daniel Hagari ha definito “un incidente”. Secondo il suo resoconto, il manipolo aveva preso possesso di due edifici che si sviluppavano su due piani nel territorio della Striscia di Gaza distante poche centinaia di metri dal kibbutz Kissufim. Mentre era intento a piazzare esplosivi per far saltare in aria le due strutture, un gruppo di miliziani di Hamas avrebbe aperto il fuoco lanciando missili Rpg contro un carro armato israeliano schierato dinnanzi agli edifici a protezione delle truppe che si trovavano all’interno. L’esplosione e la relativa onda d’urto avrebbero provocato la detonazione anticipata degli ordigni collati nei due edifici, facendoli crollare sopra i 21 soldati che li occupavano.

Quella di demolire interi complessi architettonici di Gaza “ripuliti” dalla presenza di forze nemiche rappresenta una prassi consolidata, che le forze israeliane hanno messo abbondantemente in atto nel corso dell’Operazione Spade di Ferro. In particolare, per distruggere strutture che ospitano istituzioni educative palestinesi. Già l’11 ottobre, l’aeronautica militare israeliana pubblicò un filmato per documentare l’attacco portato contro l’Università Islamica di Gaza. Nel relativo comunicato stampa, l’Israeli Defense Force ha affermato, senza esibire alcuna prova, di aver «colpito un importante centro operativo, politico e militare di Hamas a Gaza: l’Università Islamica […]. La quale veniva utilizzata come campo di addestramento di Hamas per agenti dell’intelligence, nonché per lo sviluppo e la produzione di armi […]. Hamas ha anche sfruttato conferenze universitarie per raccogliere fondi a sostegno del terrorismo, e l’università ha mantenuto stretti legami con gli alti dirigenti del movimento terroristico».

Poche settimane dopo, è stato il turno dell’Università di al-Azhar, la seconda più grande di Gaza, e dell’Università di al-Quds, entrambe bersagliate per le stesse, identiche ragioni addotte ufficialmente dai portavoce dell’esercito israeliano a giustificazione dell’attacco contro l’Università Islamica.

La narrazione israeliana, già fortemente indebolita dall’assenza di elementi concreti in grado di corroborarla, è letteralmente crollata a fronte del modus operandi seguito sistematicamente dall’Israeli Defense Force durante l’invasione terrestre della Striscia di Gaza. Una prassi che ha visto le truppe israeliane “bonificare” le aree interessate prima di procedere con l’occupazione degli edifici universitari e scolastici palestinesi, dapprima sfruttati come postazioni militari e quindi distrutti con esplosivi nell’ambito di vere e proprie demolizioni incontrollate videoregistrate e diffuse sulla rete. Un filmato, ad esempio, mostra la distruzione della facoltà di medicina dell’Università Islamica; un altro, la demolizione dell’Università Israa di Gaza City. I cui dirigenti hanno denunciato che l’edificio conteneva circa 3.000 reperti rari risalenti alle ere preislamica, romana e islamica sottratti dai soldati israeliani prima di procedere alla distruzione.

Risulta oggettivamente difficile scorgere motivazioni valide da un punto di vista tattico dietro la decisione di far saltare in aria questo genere di edifici, nel momento in cui si trovavano sotto il totale controllo israeliano. Il discorso cambia però radicalmente se la si legge attraverso una chiave interpretativa simbolica e la si pone in una prospettiva di medio periodo.

L’istruzione rappresenta un pilastro fondamentale dell’identità palestinese, ed è, spiega Karma Nabulsi, docente di origini palestinesi presso la facoltà di scienze politica dell’Università St. Edmund Hall di Oxford, «parte integrante della vita familiare, dell’identità e della ribellione di ciascun palestinese. Tutti lo sanno, e in un campo profughi come Gaza ogni bambino è consapevole del fatto che su quegli stessi banchi di scuola si erano seduti i suoi genitori e nonni, di cui è chiamato a portare avanti la tradizione».

E ha aggiunto: «il ruolo e il potere dell’istruzione in una società occupata sono enormi. L’istruzione offre possibilità, apre orizzonti. La libertà di pensiero contrasta nettamente con il muro dell’apartheid, i posti di blocco militarizzati, le prigioni soffocanti». Si tratta insomma di «qualcosa che gli israeliani non possono sopportare e cercano di distruggere. Ne eravamo già consapevoli, e lo vediamo ora più chiaramente che mai: Israele sta cercando di annientare una Palestina istruita».

Stando ai dati raccolti da EuroMed Human Rights Monitor e dal Ministero dell’Istruzione di Gaza, a decorrere dal 7 ottobre sono stati parzialmente o completamente distrutte tutte le strutture universitarie della Striscia di Gaza, oltre a 281 scuole pubbliche e 65 istituti educativi delle Nazioni Unite. Nel computo rientrano anche 94 accademici, 231 insegnanti e funzionari e 4.327 studenti uccisi. L’Osservatorio ha parlato senza mezzi termini di «distruzione intenzionale delle proprietà culturali e storiche palestinesi», in quanto «gli accademici presi di mira hanno studiato e insegnato in una varietà di discipline, e molte delle loro idee sono servite come pietre angolari della ricerca nelle università della Striscia di Gaza».

Lo spazio all’interno della Striscia di Gaza preposto alla produzione e alla circolazione della conoscenza è stato in altri termini eliminato, ed è impossibile prevedere se e quando le lezioni riprenderanno. Le autorità di Gaza evidenziano che la mancanza di luoghi sicuri, di corrente elettrica e di connessioni internet stabili rendono inapplicabile la didattica a distanza, a cui scuole e università della Cisgiordania stanno invece passando obtorto collo a causa dell’esplosione di violenza ascrivibile ai coloni e alle forze di sicurezza israeliane, certificata dai 371 palestinesi assassinati a decorrere dal 7 ottobre.

Il tutto con il consenso e la collaborazione attiva del mondo accademico israeliano. I provvedimenti disciplinari contro studenti e docenti sia israeliani che palestinesi critici nei confronti della linea d’azione portata avanti da governo e forze armate sono infatti all’ordine del giorno. In un sommario riepilogo formulato dal «Manifesto» si richiama l’attenzione sugli «attacchi sistematici all’interno delle istituzioni accademiche israeliane, principalmente contro gli studenti e il personale palestinese, ma anche contro i dissidenti ebrei israeliani interni, per la loro solidarietà con Gaza. La British Society for Middle Eastern Studies (Brismes) ha riferito come, dall’inizio degli attacchi in ottobre, le istituzioni accademiche israeliane abbiano represso la libertà accademica e di parola sospendendo, indagando ed espellendo studenti per aver espresso solidarietà con il popolo palestinese. Inoltre, la Hebrew University ha pubblicato una lettera di potenziale incitamento alla violenza verbale e fisica contro Nadera Shalhoub-Kovorkian, una professoressa palestinese che ha firmato una petizione a sostegno del cessate il fuoco a Gaza. Nel frattempo, il David Yellin Academic College ha sospeso Nurit Peled Elhanan, professoressa ebrea e vincitrice del Premio Sakharov, per aver criticato un paragone tra Hamas e i nazisti in una chat WhatsApp dei colleghi. Questa ondata di repressione ha portato anche al licenziamento del dottor Uri Horesh dall’Achva Academic College a causa dei suoi post su Facebook in solidarietà con Gaza».

La punizione sistematica dei docenti e studenti non allineati risulta del tutto coerente con una specifica organizzazione degli interessi interni a Israele, contrassegnata dall’interconnessione a più livelli tra il “complesso militar-industriale” e le istituzioni accademiche. Le quali cooperano attivamente nella messa a punto di sistemi d’arma e di dottrine operative per conto delle forze armate israeliane, divenute sempre più dipendenti dai dispositivi high-tech progettati dalle università israeliane. Le nuove tecnologie agevolano ed efficientano l’occupazione, fornendo allo stesso tempo nuovi prodotti di esportazione per l’industria israeliana della sicurezza.

Il Technion di Haifa ha contribuito a sviluppare il bulldozer telecomandato D-9, ampiamente utilizzato nella distruzione delle case palestinesi. Nel periodo 2008-2013 ha mantenuto una partnership di ricerca con Elbit Systems Ltd., che fornisce sia dispositivi di rilevamento elettronico installati nel muro di separazione israeliano in Cisgiordania, sia droni impiegati in nei territori palestinesi. Nonché dell’Urlo, un sistema acustico “non letale” concepito per il controllo delle folle che «emette sonorità insopportabili per l’uomo fino a 100 metri di distanza». Si tratta di un’arma utilizzata principalmente per la repressione delle manifestazioni nei territori palestinesi. La Technion University ha acquisito talmente tanta influenza da affermarsi come l’ala di ricerca e sviluppo di riferimento dell’esercito israeliano.

L’Università Bar-Ilan, invece, ha partecipato a svariate ricerche congiunte con l’esercito, a partire da quelle finalizzate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale per la guida di veicoli da combattimento senza pilota. Il grafene, in grado di rendere più durature le batterie al litio che alimentano i droni, è frutto di una collaborazione tra l’Università di Manchester e diverse università e aziende israeliane, tra cui proprio quella di Bar-Ilan.

Come rileva la sociologa palestinese Lisa Taraki, il coinvolgimento delle università israeliane nella violenza di Stato contro i palestinesi è talmente profondo che le nomine accademiche di alto livello sono andate a beneficio di «individui noti per aver supervisionato e progettato misure repressive e commesso persistentemente violazioni del diritto internazionale umanitario contro i palestinesi in qualità di funzionari dell’esercito e dell’intelligence».

Il “complesso militar-industriale” israeliano si appoggia insomma alle università del Paese per affinare le proprie capacità, e si serve dei territori palestinesi sia come “laboratorio” per testare i sistemi d’arma e le strumentazioni di sorveglianza, sia come “vetrina” per favorirne l’esportazione, e vendere all’estero un intero modello incentrato su terrore, controllo e repressione.

Il contributo dell’accademia israeliana va tuttavia perfino oltre, arrivando al confezionamento di coperture ideologiche alle politiche di occupazione e segregazione portate avanti dal governo. È il caso di Joel Roskin, che in qualità di geografo della Hebrew University e specialista in materia di geolocalizzazione con incarichi presso l’Israeli Defense Force, ha scritto un editoriale per il «Jerusalem Post» in cui si invocava la deportazione degli abitanti della Striscia di Gaza verso il Sinai egiziano, identificata come una “soluzione umanitaria”.

Così, mentre gli accademici israeliani intensificano la collaborazione con l’industria militare domestica, Tsahal procede con la demolizione degli edifici scolastici e universitari palestinesi, nell’ambito di un fenomeno che l’Associazione Internazionale per l’Educazione del Sud Africa ha definito “epistemicidio”. Vale a dire «un brutale tentativo di annientare il sistema di conoscenza» della Striscia di Gaza che, combinandosi con la demolizione di infrastrutture civili parimenti cruciali come il palazzo di giustizia, tribunali, ospedali e uffici pubblici di vario genere, punta a devastare la vita collettiva dei palestinesi. Come osservava lo scorso dicembre la testata «The New Arab», «Israele intende rendere la Striscia di Gaza inabitabile per la specie umana, nella speranza che un simile scenario di desolazione inneschi una emigrazione su larga scala».

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