L'eterno negoziato


di Matteo Viola


Sono trascorsi vent’anni dal giorno in cui l’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Yasser Arafat si strinsero la mano sotto lo sguardo dell’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, lì presente in veste di garante. Era il 13 settembre 1993. In quell’occasione, i due leader sottoscrissero gli Accordi di Oslo, conclusi nella capitale norvegese il mese precedente e considerati da tutti un accordo storico tra i palestinesi e gli israeliani. Dopo sei mesi di negoziati indiretti e segreti, Israele e OLP si riconoscevano reciprocamente per la prima volta, firmando una “Dichiarazione di principi” su un’autonomia palestinese transitoria di cinque anni, durante i quali si sarebbe dovuto negoziare un accordo permanente.
Tra le altre clausole contenute negli accordi, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sarebbero state divise in tre zone: una sotto il controllo dell’Autorità palestinese, una sotto pieno controllo israeliano ed un’altra sotto un duplice controllo, palestinese per la parte civile e israeliano per quanto riguarda la sicurezza. Le note risoluzioni 242 e 338 emanate dall’ONU avrebbero costituito parte integrante dell’accordo, e nel periodo di governo ad interim si sarebbero dovute svolgere libere elezioni per eleggere democraticamente il consiglio per il popolo palestinese della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il condizionale passato in questo caso è d’obbligo, in quanto di tutte le promesse e i punti di compromesso raggiunti venne rispettato ben poco.
Dopo il suddetto accordo di Oslo infatti, le parti si sono nuovamente incontrate e confrontate in numerose occasioni, ma al tempo stesso si sono verificati non di rado episodi che hanno costantemente messo a rischio l’intero processo di pace. Nel 1996 Yasser Arafat stravince le prime elezioni della storia palestinese – soprattutto grazie al boicottaggio delle stesse da parte di Hamas – ma contestualmente, dopo la salita al potere in Israele di Netanyahu, i negoziati di pace subiscono un rallentamento piuttosto deciso; nonostante ciò, i due leader riescono due anni dopo a raggiungere faticosamente un altro accordo, sempre sotto la supervisione di Bill Clinton, che prevede il cosiddetto scambio “terra contro pace”, in base al quale gli israeliani si ritirano dal 13% dal territorio cisgiordano occupato.
Ad alcuni punti di contatto positivi fanno però da contraltare episodi estremamente negativi, primo su tutti l’operazione militare denominata “Piombo fuso”, protrattasi per due mesi – dal dicembre 2008 al gennaio 2009 – e condotta da Israele con il chiaro intento di eliminare Hamas, rea di aver interrotto la tregua e aver lanciato razzi Qassam nel sud di Israele; l’attacco israeliano, definito massacro da Hamas (i morti civili, in effetti, saranno alla fine più di mille), porta l’Autorità Nazionale Palestinese ad interrompere le trattative.
Oggi, a distanza di vent’anni, il processo di pace ancora in corso rischia di rimanere una delle più grandi speranze incompiute che la storia ricordi. Dopo l’interruzione dei rapporti nel 2010 a causa della scelta unilaterale da parte del governo israeliano di non congelare il piano di insediamenti a Gerusalemme Est, i negoziati sono ufficialmente ripresi a fine luglio 2013. Qualche (timido) segno di distensione si era già registrato nelle settimane precedenti, con le aperture arrivate da parte delle autorità israeliane ai palestinesi attraverso la concessione di 5.000 nuovi permessi di lavoro ai palestinesi residenti in Cisgiordania.
Nonostante il clima di incertezza che ancora regna sovrano, e considerando che dei 77.000 palestinesi che lavorano in Israele soltanto 40.000 possiedono un permesso di soggiorno, la decisione ha riscosso senz’altro effetti positivi. Inoltre, contestualmente all’annuncio della ripresa dei negoziati, il governo israeliano ha approvato la liberazione di 104 prigionieri politici palestinesi, che saranno rilasciati gradualmente in quattro diversi momenti, a fronte di successivi progressi nei trattati di pace (nel frattempo, i primi 26 hanno già riacquistato la libertà). È in questo clima ‘tiepido’ che si è giunti al 28 luglio, giorno in cui i rappresentanti di Israele (l’inviato speciale di Netanyahu, Isaac Molho, e il Ministro della Giustizia Tzipi Livni) e quelli palestinesi (il capo negoziatore Saeb Erekat e l’economista Mohamed Shtayyeh), si sono incontrati a Washington alla presenza del Segretario di Stato americano John Kerry.

Gli Stati Uniti si sentono investiti di quel ruolo – costantemente rivendicato nel corso della storia – di garanti e principali responsabili del buon andamento del processo di pace, e si dicono più che possibilisti circa il raggiungimento nei prossimi mesi di un accordo finale che soddisfi entrambe le parti. Il piano di base da cui partire proposto dall’amministrazione statunitense prevede un ritorno ai confini così com’erano dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, e da lì sviluppare uno scambio di territori che si intrecci con le rispettive rivendicazioni delle due parti in causa. Israele pretende la smilitarizzazione dei territori palestinesi e il riconoscimento dell’identità ebraica dello Stato di Israele; i vertici palestinesi chiedono in particolar modo lo smantellamento delle colonie israeliane in Cisgiordania, così come la liberazione di tutti i detenuti politici trattenuti nelle carceri di Israele, mentre rimangono ancora controversi - e per certi versi momentaneamente esclusi dalla contrattazione – i punti riguardanti la (co)gestione della città di Gerusalemme e, soprattutto, il ruolo della Striscia di Gaza. Le posizioni, almeno al momento, appaiono ancora un po’ distanti: il premier israeliano Netanyahu – mai pienamente d’accordo sulla possibilità dell’esistenza di due distinti Stati – è frenato anche dalle posizione oltranziste di alcuni membri del proprio governo, quali il Ministro del Commercio, Bennett, e il Vice Ministro della Difesa Danon, contrari a qualsiasi tipo di concessione alle autorità palestinesi. Gli Stati Uniti, al contrario, sono sempre stati convinti della buona riuscita della trattativa e della possibilità della coesistenza di due Stati autonomi.
La strada è ovviamente ancora molto lunga, ed è inutile lanciarsi in conclusioni che paiono pleonastiche di fronte al più lungo processo di pace della storia recente. Gli stessi cittadini israeliani e palestinesi non si sono dimostrati eccessivamente ottimisti sul buon esito dei negoziati, mentre i loro governanti, a fasi alterne e con dichiarazioni a volte opinabili, si sono mostrati più possibilisti. Saranno i prossimi mesi e, soprattutto, la volontà di scendere a compromessi che entrambe le parti dimostreranno a decretare se l’infinito negoziato tra Israele e Palestina giungerà finalmente ad una conclusione.

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