Come nel golpe contro Chavez del 2002, in Venezuela tornano i cecchini



di Sabrina Arena


In Venezuela le proteste non si placano e a distanza di poco più di un mese il paese non riesce ad imboccare la via della pacificazione. Si assiste ad una sempre maggiore ostilità dell’opposizione che ha inasprito il ricorso alla violenza, ricusando ogni tentativo di conciliazione e puntando a testa bassa verso l’obiettivo ultimo: la “salida” ovvero l’uscita di Maduro.
In questo contesto, si staglia con maggior nitidezza la posizione degli Stati Uniti che, attraverso le parole del suo Segretario di Stato John Kerry, accusano Maduro di portare avanti una campagna del terrore contro i propri cittadini e accarezzano l’idea di un intervento “umanitario”.
Gli Stati Uniti sembrano ancora oggi impegnati nel tentativo di addomesticare Caracas e ottenere l’ascesa al potere di un governo maggiormente in linea con i dettami espressi dalla superpotenza atlantica.
Grazie al Freedom of Information Act, nel 2004 emersero una serie di informazioni circa aiuti finanziari che l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) aveva fornito a diverse organizzazioni venezuelane, tra cui quella denominata Sumate, fondata nel 2002 da Maria Corina Machado che, insieme a Henrique Capriles Radonski e Leopoldo Lopez, guida l’attuale opposizione. Proprio tale organizzazione era stata al centro del referendum revocatorio indetto nel 2004 con lo scopo di destituire Chavez e sempre a tale organizzazione, insieme ad altre vicine ad ambienti ostili al presidente della rivoluzione bolivariana, l’Agenzia statunitense aveva destinato 2.3 millioni di dollari.
Da alcuni cablogrammi pubblicati da Wikileaks emersero poi una serie di inquietanti retroscena che evidenziavano l’interesse morboso di Washington per Caracas e il tentativo perpetrato dal primo di destabilizzare il secondo durante il triennio 2004-2006. Questi documenti rivelarono le istruzioni a cui avrebbe dovuto attenersi l’ambasciata statunitense nelle sue attività in Venezuela: rafforzare le istituzioni democratiche, penetrare la base politica di Chavez, dividere il fronte chavista, proteggere gli interessi affaristici vitali degli Stati Uniti e isolare Chavez sul fronte internazionale. Il tutto sempre con i fondi dell’Agenzia per lo sviluppo internazionale che avrebbero dovuto irrorare le associazioni desiderose di schierarsi al fianco dello zio Sam.
Non volendo avallare tesi complottiste e non potendo accertare la presenza degli Stati Uniti dietro i focolai che stanno scuotendo oggi il Venezuela, è tuttavia chiaro l’interesse statunitense per un eventuale rovesciamento dell’attuale governo. Un interesse reso più evidente dal mancato endorsement, insieme a Canada e Panama, alla dichiarazione dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) con cui lo stesso organismo esprime la propria solidarietà e il proprio sostegno alla compagine governativa venezuelana. Una dichiarazione che richiama le parti in lotta alla conciliazione e rifiuta qualsiasi intervento o pressione nei confronti di un’autorità di cui se ne riconosce l’espressione democratica.
Proprio un intervento esterno è ciò a cui anela l’opposizione e quest’escalation di violenza, qualora non dovesse garantire le destituzione di Maduro, sicuramente potrebbe indurre le potenze straniere che coltivano interessi in Venezuela ad intervenire. Le morti dei giorni scorsi sembrano esserne un’ulteriore dimostrazione.
Come già nel 2002, quando l’opposizione tentò di rovesciare Chavez, i cecchini tornano in azione. Lo stesso Maurice Lemoine, nei giorni successivi allo scoppio delle proteste, sottolinea le similitudini esistenti tra quanto successo nel 2002 e quanto sta accadendo attualmente, nutrendo dubbi nei confronti di quella designazione di “primavera venezuelana” che è stata conferita dai media. Proprio l’11 aprile 2002 i cecchini sparano sulla folla, colpendo sia sostenitori bolivariani che suoi avversari. L’opposizione punta il dito contro Chavez e scatena un colpo di stato di breve durata.
Il 6 marzo 2014, invece, durante uno scontro tra la Guardia Nazionale Bolivariana e i guarimberos (manifestanti che erigono le barricate e confezionano trappole di fil di ferro tesi ai due lati delle strade), proprio quando i primi riescono ad acquisire il controllo della situazione, colpi di arma da fuoco vengono esplosi dai tetti degli edifici vicini, uccidendo un membro della GBN e due civili. La settimana successiva il numero delle vittime dei cecchini sale. Nella città di Valencia, nello stato di Carabobo, un capitano della GNB viene ferito mortalmente durante il tentativo di rimuovere una barricata e ancora vengono uccisi due civili, uno studente che partecipava ad una manifestazione contro Maduro e un uomo di 42 anni intento a ridipingere le facciate della propria abitazione.
Per molti sembra profilarsi una guerra civile e la propaganda mediatica internazionale ne attribuisce la responsabilità a Maduro che respinge le accuse e afferma di disconoscere quanti, pur riconducibili al fronte chavista, decidano di fare ricorso alla violenza. Proprio per tale ragione, invoca l’istituzione di una Commissione per la Verità, che faccia luce sulle responsabilità e l’identità dei colpevoli al fine di trarli dinnanzi alla giustizia e cerca di imprimere un’accelerazione al tentativo di convocare una conferenza di pace che, tuttavia, è stata respinta persino dall’ala moderata del fronte antichavista, rappresentata da Capriles. Nelle sue recenti affermazioni lo stesso ha preconizzato il futuro decesso dell’attuale governo, unica condizione che l’opposizione è disposta a negoziare e ad accettare, mentre l’ala più radicale rinviene nelle parole di Lopez, che incita i manifestanti a resistere sino a quando Maduro non farà un passo indietro, l’appoggio necessario per continuare ad incendiare il paese e rimanere in strada ad erigere le cosiddette guarimbas, nonostante l’ultimatum del governo.

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