Qualcuno ha lavorato a lungo, investendo tempo e denaro affinché la Siria precipitasse in questo incubo. Fulvio Scaglione


Per gentile concessione di Fulvio Scaglione, www.fulvioscaglione.com

Damasco – Niente foto a Damasco. La città è militarizzata, posti di blocco ovunque anche perché i miliziani dell’Isis sono ancora annidati nel quartiere di Jobar (dove si trova anche una sinagoga vecchia di due millenni, dedicata al profeta Elia, che per secoli è stata meta di pellegrinaggi degli ebrei) e in quello più periferico di Ghouta e da lì sparano sul centro. E i militari non si fotografano. La gente è nevrotica per cinque anni di guerra, non sa dove finirà la sua immagine e tra spie dell’Isis o del regime… Sono bastati due scatti in un mercato per sollevare domande, proteste, reazioni diffidenti. D’altra parte qui i metodi degli islamisti li hanno tutti sotto gli occhi: a Jobar, per terrorizzare la gente e impedire il contrattacco, all’inizio dell’occupazione quelli dell’Isis trascinavano gli ostaggi in cima al Palazzo degli Insegnanti (costruito dal Governo per alloggiare il personale docente) e le buttavano di sotto.
Ma niente foto anche perché la Damasco che bisognerebbe fotografare, oggi, non è visibile. E’ sotto terra, nella vasta rete di tunnel di cui entrambe le forze in campo cercano di approfittare: gli islamisti per nascondersi, organizzare nuovi attacchi, minare postazioni nemiche e infiltrarsi in città), le forze governative per respingerli e, al contrario, provare a riprendere le zone ancora controllate dalla guerriglia. E’ una guerra insidiosa e spietata, che ricorda certe fasi di quella del Viet Nam. Qui con una complicazione in più: nella parte antica di Damasco, quella dentro le mura, quella che comprende anche il quartiere cristiano di Bab Touma (la Porta di Tommaso), le case odierne sorgono su diversi strati di antiche rovine. In altre parole, il sottosuolo è pieno di gallerie, anfratti, canali “naturali”. E se si pensa che Jobar è a soli due chilometri, si capisce che uno dei piani degli islamisti è congiungere i “propri” tunnel a quelli antichi, per dilagare così ovunque.
Tunnel antichi e nuovi pericoli
La gente di Bab Touma e di Damasco in genere non ha dubbi: i tunnel dei ribelli vengono da lontano, da un’opera segreta di scavo cominciata, con la complicità delle frange estremiste sunnite annidate in certi quartieri, ben prima della Primavera siriana del 2011, poi degenerata in guerra. Si parla del 2008-2009 e si porta a controprova della teoria la dimensione impressionante di alcuni tunnel: non cunicoli ma vere strade sotterranee, percorribili anche da veicoli. Come quello, scoperto dai governativi in agosto, lungo quasi un chilometro, scavato a 17 metri di profondità, dotato di impianti di illuminazione e ventilazione e puntato dritto da Jobar verso Piazza Abbassiyyin, dove c’è lo stadio ormai trasformato in piazzaforte dell’esercito di Assad.
Un’opera complicata, costosa, lunga, che non può essere stata né concepita né realizzata di colpo e improvvisando. Un tunnel che, come altri, per essere scavato richiede competenza tecnica e molta mano d’opera. In una guerra fratricida come questa, a cui molte mani esterne contribuiscono, è inevitabile che fioriscano ipotesi di complotto e teorie di congiura. Ma se sui tunnel la gente di Damasco ha ragione, allora una conclusione è inevitabile: qualcuno ha lavorato a lungo, per tempo e investendo denaro affinché la Siria precipitasse in questo incubo. Anche al netto del dissenso nei confronti del regime di Bashar al-Assad, accusato soprattutto di aver lasciato proliferare una corruzione diventata col tempo insopportabile. Legittima obiezione: possibile che un regime non democratico e occhiuto come quello di Assad si facesse scavare in casa a quel modo?
Comunquesia, i tunnel ci sono. E anche i governativi ci fanno la guerra. Hanno arruolato gruppi di geologi che sono diventati specialisti del controspionaggio sotterraneo: identificano le zone “a rischio” (tante, perché qui il terreno è morbido), con i loro strumenti scovano i tunnel dei ribelli, consigliano dove scavare e come. Quando un tunnel degli islamisti viene scoperto, lo si fa saltare con gli esplosivi. Oppure, ma è più complesso, si bombarda la zona circostante in modo da spingere i miliziani a rifugiarsi nel tunnel. E poi lo si fa saltare.
Altra tattica a volte usata: quando un tunnel viene scoperto, si installano delle microcamere per spiare i movimenti dei ribelli e capire le loro intenzioni. Tutti i tunnel dei governativi, comunque, sono minati: in caso di ritirata, saltano anche questi, perché i miliziani non possano utilizzarli. Detto questo, e di tutte le tattiche e le strategie, resta la realtà brutale della guerra. I soldati e gli islamisti, qua sotto nei tunnel, vivono e muoiono fidando soprattutto nell’istinto e nelle orecchie, ormai allenate a distinguere anche i rumori tra “amici” e “nemici”. E la gente, là sopra, per le strade, nei mercati e nelle scuole, vive sperando che le orecchie dei soldati funzionino bene.

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