Maxim Litvinenko accusa i britannici: «Loro avevano più motivi per uccidere mio fratello»


di Eugenio Cipolla

Leggendo le trecento pagine redatte da sir Robert Owen, il giudice della corte britannica che ha definito Vladimir Putin il “probabile” mandante dell’omicidio dell’ex agente dell’FSB, Aleksander Litvinenko, assassinato a Londra nel 2006 con una dose letale di Polonio 210, si ha l’impressione di imbattersi in un qualcosa di costruito ad arte per screditare la leadership russa. Ogni parola, ogni frase, ogni espressione sono accompagnate sempre da un sé, da un ma o da un punto di domanda, a dimostrare che una tesi più o meno logica c’è, ma che mancano le prove per dimostrarla e renderla inconfutabile.

David Cameron, nel tentativo di rafforzare la relazione della giustizia britannica, ha parlato di «omicidio di Stato», incontrando tutto il disappunto del Cremlino, molto irritato per l’ennesima mossa britannica tesa a infastidire la sempre più crescente influenza del presidente russo nella zona del conflitto siriano. Di ciò che non tornava in quella relazione ne abbiamo parlato qui, qualche giorno fa, sottolineando nove punti che rafforzano i dubbi sul documento diffuso dai giudici di Sua Maestà. Il decimo, quasi a farlo apposta per arrotondare la cifra, lo ha aggiunto Maxim Litvinenko, fratello di Aleksandr.

La sua opinione è nettamente discordante rispetto a quella della cognata Marina, vedova di Aleksandr, la quale, subito dopo la diffusione della relazione, ha chiesto al governo di Londra di imporre sanzioni contro la Russia. «Non credo nemmeno per un secondo che le autorità russe possano essere coinvolte – ha detto Maxim al tabloid inglese Mirror – questa tesi è serve come strumento di pressione contro il governo russo, per metterlo in cattiva luce. Altrimenti perché i risultati vengono fuori solo dopo 10 anni?». Secondo il fratello di Litvinenko «i russi non avevano ragione di volere Aleksander morto, perché non era una spia, era più simile ad un poliziotto. Sono gli occidentali che lo hanno definito spia. Sì, era nell’FSB, ma lavorava perlopiù su casi riguardanti criminalità organizzata, omicidi, traffico d’armi. Cose del genere, insomma. Non conosceva alcun segreto di Stato».

Maxim, che oggi vive a Rimini, in Italia, dove lavora come chef, crede in realtà che i servizi britannici «avevano molti più motivi dei russi per eseguire questo assassinio». Il fratello, infatti, arrivato a Londra, si era unito all’MI-6 e li potrebbe essere venuto a conoscenza di documenti riservati riguardo l’attività dell’intelligence britannica contro la Russia. Sia Maxim che il padre hanno detto di non aver fede nel rapporto britannico, mettendo persino in dubbio il fatto che sia stato il Polonio 210 la vera causa della morte di Aleksander.

«Credo che possa essere stato ucciso da un altro veleno, forse tallio, che gli ha causato una morte lenta e dolorosa. Il Polonio può essere stata somministrato in seguito. Noi – ha detto Maxim – abbiamo sempre chiesto di riesumare il corpo, in modo da verificare la presenza di Polonio nel corpo, ma la nostra richiesta è stata sempre ignorata. Ora sono passati dieci anni e anche se venisse accolta non lo sapremo mai se era davvero così, perché ogni traccia di veleno sarebbe già scomparsa». Maxim ha avanzato anche qualche altra ipotesi, collegando la morte del fratello con il suicidio di Boris Berezovksy e l’assassinio di un proprietario di night club dove sono state trovate tracce di Polonia. Il mistero diventa sempre più fitto.

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