La Turchia paga il prezzo della destabilizzazione e la svolta di Erdogan. Alberto Negri


di Alberto Negri, Il Sole 24 Ore*

Lo spaventoso attentato all’aeroporto di Istanbul non soltanto scuote ancora una volta la Turchia, colpita ripetutamente in questo anno e mezzo dal terrorismo, ma si colloca in un contesto diplomatico e bellico delicatissimo, quello della spartizione delle zone di influenza nel cuore del Medio Oriente.
Il presidente Tayyep Erdogan affronta in questo momento la prova più dura e insidiosa della sua presidenza, lungo un arco di tempo che vede il partito islamico Akp al potere da quasi 14 anni. Erdogan ha dovuto in questi mesi ridimensionare le sue ambizioni da “sultano” mediorientale e cambiare anche una politica estera che prima lo aveva visto appoggiare i Fratelli Musulmani in Egitto, sbalzati al potere dal colpo di stato del generale Al Sisi, e poi lo aveva portato in prima linea nella guerra in Siria per abbattere il regime di Bashar Assad. Il conflitto doveva durare pochi mesi ed è in corso da più di cinque anni: un altro errore di calcolo clamoroso. È stato Erdogan con l’ex premier Ahmet Davutoglu ad aprire “l’autostrada della jihad” che ha portato migliaia di combattenti islamici sul campo di battaglia siriano contro Assad.
La Turchia si è quindi trovata sbilanciata quando sulla scena è comparso l’Isis ed è cominciata la guerra al Califfato. La Turchia, storico membro della Nato, si è trovata a giocare una partita delicata: da un parte ha sostenuto l’opposizione islamica contro Damasco e allo stesso tempo ha scatenato un’offensiva contro i curdi del Pkk e quelli siriani, temendo la costituzione di uno stato curdo ai suoi confini.
Un ruolo assai difficile da sostenere: troppi nemici e pochi alleati. Erdogan si è scontrato con il fronte sciita rappresentato dall’Iran, Assad e dagli Hezbollah libanesi ma anche con la Russia di Putin, alleata di Teheran, che prima era uno dei partner economici ed energetici più importanti per Ankara. È stato quindi costretto a imprimere una virata alla sua politica estera. A Roma domenica è stato firmato l’accordo con Israele per ristabilire dopo sei anni di rottura le relazioni diplomatiche con lo stato ebraico. Israele è stato per anni un partner importante per la Turchia anche sul piano militare e dell’intelligence: l’incidente della Mavi Marmara nel 2010, il convoglio turco di aiuti a Gaza, assaltato dai reparti speciali israeliani, aveva causato la morte di 10 cittadini turchi. Da allora i rapporti erano stati congelati.
Questa intesa è stata una sorta di coro a tre voci. Da un parte Erdogan e il premier israeliano Netanyahu, dall’altra il presidente russo Putin che con leader dello stato ebraico intrattiene ottimi rapporti ma che è anche un fiero nemico dei jihadisti e un sostenitore di Assad. La lettera di scuse a Putin, per altro alquanto ambigua, non può essere stata certamente gradita negli ambienti islamisti. Come non può piacere il rinnovato rapporto con Israele. La partita mediorientale è diventata complessa e la Turchia sta pagando il peso dei conflitti in cui è stata coinvolta con un’ondata di destabilizzazione.

*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore.

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