J. Stiglitz: "le politiche democratiche assicurano il fallimento e la fine dell'euro"


Dopo aver definito la situazione di alcuni paesi dell'Unione europea peggiore a livello economico di quella nella fase della Grande Depressione, nel suo ultimo articolo per the Project Syndicate il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz scrive come, a discapito delle tesi più disparate che si leggono, la responsabilità maggiore ha un chiaro indiziato: l'euro.

Scrive il Premio Nobel: “La struttura della zona euro ha imposto un tipo di rigidità particolare associato con il gold standard. La moneta unica ha portato via il meccanismo più importante per le regolazioni tra i suoi membri – il tasso di cambio – e la zona euro ha circoscritto le politiche monetarie e fiscali.
In risposta agli shock asimmetrici e alle divergenze in termini di produttività, si dovrebbero favorire aggiustamenti del tasso di cambio reale (al netto dell’inflazione), il che significa che i prezzi nella periferia della zona euro dovrebbero scendere rispetto alla Germania ed al Nord Europa. Ma, con la Germania irremovibile sull’inflazione – i suoi prezzi sono rimasti fermi – l’aggiustamento potrebbe essere realizzato solo attraverso una deflazione che risulterebbe disastrosa altrove. In genere, questo ha significato dolorosa disoccupazione ed indebolimento dei sindacati; i paesi più poveri della zona euro, e soprattutto i lavoratori al loro interno, hanno sostenuto il peso degli oneri di regolazione. Così il piano per stimolare la convergenza tra i paesi della zona euro è fallito miseramente, con disparità tra e all’interno dei paesi in crescita”.


Sull'insontenibilità di lungo periodo dell'euro Stiglitz non ha alcun dubbio. “le politiche democratiche ne assicurano il fallimento. Solo cambiando le regole e le istituzioni della zona euro si può fare in modo che funzioni. Ciò richiederebbe sette modifiche:
• abbandonare i criteri di convergenza, che impongono che il deficit sia inferiore al 3% del PIL;
• sostituire l’austerità con una strategia di crescita, sostenuta da un fondo di solidarietà per la stabilizzazione;
• smantellare un sistema soggetto a crisi in cui i paesi devono assumere prestiti con una valuta non sotto il loro controllo, basandosi invece su Eurobond o qualche meccanismo simile;
• ripartire in modo migliore gli oneri durante la regolazione, con i paesi che presentano surplus delle partite correnti che si impegnano ad incrementare i salari e ad aumentare la spesa fiscale, garantendo in tal modo che i loro prezzi aumentino più velocemente di quelli dei paesi con disavanzi correnti;
• cambiare il mandato della Banca Centrale Europea, che si concentra solo sull’inflazione, a differenza della Federal Reserve, che prende in considerazione anche occupazione, crescita, stabilità;
• stabilire un sistema comune di garanzie dei depositi, tali da impedire fughe di denaro dai paesi a scarso rendimento, e promuovere altri elementi di “unione bancaria”;
• incoraggiare, piuttosto che proibire, politiche industriali volte a garantire che i paesi ritardatari della zona euro possano raggiungere quelli leader.

E poi conclude: “Ovviamente, tutti i divorzi sono costosi; ma continuare a tirare avanti alla meno peggio potrebbe essere ancora più costoso. Come abbiamo già visto questa estate nel Regno Unito, se i leader non possono o non vogliono prendere decisioni difficili, sono gli elettori europei a prendere le decisioni per loro – ed i leader potrebbero non essere soddisfatti dei risultati”.


All'interno della zona euro l'Italia è destinata a perenne deflazione salariale, ridiscussione di diritti acquisiti, deindustrializzazione e migrazione forzata di manodopera a basso costo nel nord dell'Europa. Per quanto tempo ancora saremo disposti ad accettare tutto questo?

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