La deriva mediorientale della Turchia. Alberto Negri


di Alberto Negri, Il Sole 24 Ore*

Con un colpo di pistola come a Sarajevo nel 1914 la Turchia esce dall’Europa ed entra in Medio Oriente. Non basta essere sfuggito a un golpe, diventare un autocrate che fa piazza pulita dell’opposizione legale oltre che dei gulenisti, imbastire purghe di migliaia di poliziotti e militari, accentrare i poteri in mano al presidente, per avere un Paese sotto controllo: questa è la lezione che impartisce a Erdogan l'attentato in cui è stato ucciso l'ambasciatore russo ad Ankara, Andrey Karlov. Una lezione rafforzata dalla dozzina di attentati che nell'ultimo anno hanno insanguinato la Turchia, da quello di Istanbul a Besiktas all’ultimo di domenica scorsa a Kayseri. Stragi le cui rivendicazioni, vere o presunte, dall’Isis ai curdi, avvolgono ancora di più in una nebbia indistinta le radici di uno “stato profondo” scosso dall’avventurismo del suo leader. La Turchia è un Paese che oscilla pericolosamente verso una deriva mediorientale dove è stata trascinata dalle spericolate iniziative di Erdogan che voleva abbattere Assad aprendo cinque anni fa “l’autostrada della Jihad” e ora deve mettersi d’accordo con Putin e l’Iran per salvaguardare i suoi vulnerabili confini. La Turchia paga la retorica e le azioni di un leader che si è proposto con orizzonti neo-ottomani flirtando con i gruppi radicali islamici per utilizzarli contro Damasco ma anche nei confronti dei curdi. Basta ricordare l’assedio di Kobane e il coinvolgimento ambiguo di turchi a favore dell’Isis, petrolio compreso. Ossessionato dall’incubo strategico di un embrione di stato curdo alle frontiere, Erdogan prima ha fallito l’obiettivo di eliminare Assad e di portarsi via un pezzo di Siria, di cui Aleppo era il boccone più ambito, quindi ha dovuto scendere a patti sia con Mosca che con Damasco, tanto è vero che oggi nella capitale russa è in programma un vertice trilaterale dei ministri della Difesa e degli Esteri di Ankara e Teheran, Ma lui, Erdogan, è sicuramente quello dei tre che ha meno sotto controllo la situazione nonostante mantenga il ricatto all’Europa con l’accordo sui migranti ma anche alla Nato ormai ben consapevole che Ankara persegue i suoi esclusivi interessi, molto meno quelli dell’Alleanza. Ci è voluto oltre un anno di trattative estenuanti perché la Turchia concedesse agli Usa la base di Incirlik per bombardare l’Isis con la clausola di fare lo stesso contro i curdi siriani, considerati da Washington membri della coalizione contro il Califfato. I militari occidentali ormai non comunicano più nella basi Nato con i colleghi turchi e gli stessi vertici dell’Alleanza temono che le purghe nelle forze di sicurezza abbiano minato la fiducia dei militari. Questa dovrebbe essere una lezione da tenere a mente anche per i leader occidentali se pure loro non fossero stati complici volonterosi dell’attuale deriva della Turchia. Gli Stati Uniti in primo luogo, che con l’ex segretario di Stato Hillary Clinton hanno dato il via libera a Erdogan per far fuori Assad, la Francia che ha visto in Ankara una pedina per le sue ambizioni di ex potenza coloniale in Siria pagando con gli attentati del terrorismo jihadista. Non solo Erdogan si è impantanato in Medio Oriente ma adesso per venirne fuori deve fidarsi di Putin che di lui, nonostante abbia fatto pace, non si fida affatto: gli errori dell’apprendista raìs ora li paga tutta la Turchia ma anche l’Europa che non può vedere inerte la sedicesima potenza mondiale, legata a doppio filo dall’economia, sfiorare il caos.

*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore

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