Manlio Dinucci - Italia «a testa alta» nelle spese per la guerra

di Manlio Dinucci (il manifesto, 30 aprile 2017)

«L'Italia partecipa a testa alta all'Alleanza Atlantica, nella quale è il quinto maggiore contributore, e conferma l'obiettivo di raggiungere il 2 per cento del Pil nelle spese militari»: lo ha dichiarato il presidente del consiglio Gentiloni, ricevendo il 27 aprile a Roma il segretario generale della Nato Stoltenberg. Ha così ripetuto quanto già detto al presidente Usa Trump, ossia di essere «fiero del contributo finanziario dell’Italia alla sicurezza dell’Alleanza», garantendo che, «nonostante certi limiti di bilancio, l’Italia rispetterà l’impegno assunto».



I dati sulla spesa militare mondiale, appena pubblicati dal Sipri, confermano che Gentiloni ha ragione ad andare fiero e a testa alta: la spesa militare dell’Italia, all’11° posto mondiale, è salita a 27,9 miliardi di dollari nel 2016. Calcolata in euro, corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni (cui si aggiungono altre voci, tra cui le missioni militari all’estero, extra budget della Difesa).


Sotto pressione Usa, la Nato vuole però che l’Italia arrivi a spendere per il militare il 2% del Pil, ossia circa 100 miloni di euro al giorno. Su questo, Trump è stato duramente esplicito: ricevendo Gentiloni alla Casa Bianca, riferisce lui stesso in una intervista alla Associated Press, gli ha detto «Andiamo, devi pagare, devi pagare…». E, nell’intervista, Trump si dice sicuro: «Pagherà». Non è però Gentiloni a pagare, ma la stragrande maggioranza degli italiani, direttamente e indirettamente attraverso il taglio delle spese sociali.


C’è però, evidentemente, chi ci guadagna. Nel 2016, l’export italiano di armamenti è aumentato di oltre l’85% rispetto al 2015, salendo a 14,6 miliardi di euro. Un vero e proprio boom, dovuto in particolare alla vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait, che diviene primo importatore di armi italiane. Un maxi-contrattto da 8 miliardi di euro, merito della ministra Pinotti, efficiente piazzista di armi (v. il manifesto, 23 febbraio 2016). La più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica, nelle cui casse entra la metà degli 8 miliardi. Garantita con un finanziamento di 4 miliardi da un pool di banche, tra cui UniCredit e Intesa Sanpaolo, e dalla Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti.


Si accelera così la riconversione armata di Finmeccanica, con risultati esaltanti per i grossi azionisti: nella classifica delle 100 maggiori industrie belliche mondiali, redatta dal Sipri, Finmeccanica si colloca nel 2015 al 9° posto mondiale con una vendita di armi del valore di 9,3 miliardi di dollari, equivalente ai due terzi del suo fatturato complessivo.


L’azienda accresce fatturato e profitti puntando su industrie come la Oto Melara, produttrice di sistemi d’arma terrestri e navali (tra cui il veicolo blindato Centauro, con potenza di fuoco di un carrarmato, e cannoni con munizioni guidate Vulcano venduti a più di 55 marine nel mondo); la Wass, leader mondiale nella produzione di siluri (tra cui il Black Shark a lunga gittata); la Mbda, leader mondiale nella produzione di missili (tra cui quello anti-nave Marte e quello aria-aria Meteor); l’Alenia Aermacchi che, oltre a produrre aerei da guerra (come il caccia da addestramento avanzato M-346 fornito a Israele), gestisce l’impianto Faco di Cameri scelto dal Pentagono quale polo dei caccia F-35 schierati in Europa.


Poco importa che Finmeccanica – in barba al «Trattato sul commercio di armamenti» che proibisce di fornire armi utilizzabili contro civili – fornisca armi a paesi come il Kuwait e l’Arabia Saudita, che stanno facendo strage di civili nello Yemen. Come stabilisce il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, convertito in disegno di legge, è essenziale che l’industria militaresia «pilastro del Sistema Paese», poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati».


Poco importa che si spendano per il militare, con denaro pubblico, oltre 70 milioni di euro al giorno, in continuo aumento. Essenziale, stabilisce il «Libro Bianco», è che l’Italia sia militarmente in grado di tutelare, ovunque sia necessario, «gli interessi vitali del Paese». Più precisamente, gli interessi vitali di chi si arricchisce con la guerra.

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