Alberto Negri - l'Onu certifica il fallimento italiano in Libia con un diktat: "Trattare con Haftar"


di Alberto Negri* - Il Sole 24 Ore


A ogni cambio di stagione c’è anche un nuovo inviato dell’Onu per la Libia. Prima del libanese Ghassam Salamé ci sono stati il giordano Al-Khatib, il britannico Ian Martin, un altro libanese, Tariq Metri, lo spagnolo Bernardino León e il tedesco Martin Kobler. Mai un italiano, tanto per rendere chiaro che Roma nelle sue ex colonie può mettere piede, anche diplomaticamente, soltanto se gli altri non hanno nulla da eccepire e questo non accade quasi mai.

Diffidenza nei confronti degli ex colonialisti? Può darsi ma anche i governi italiani possono averne qualcuna verso questi inviati decisi dalle accese diatribe tra potenze al Palazzo di Vetro che sembrano riflettere quelle tra le fazioni libiche. L’ex premier palestinese Salam Fayyad è stato fatto fuori dagli Usa «per non compromettere gli interessi di Israele».



E quando gli altri non mettono i bastoni tra le ruote ci proviamo noi a farlo perché il segretario Onu Antonio Guterres aveva collocato nella rosa dei papabili per sostituire Kobler anche Lamberto Zannier, diplomatico proveniente dai ranghi della Farnesina ma fuori ruolo in organismi internazionali per gran parte della carriera. Pare che l’Italia sul suo nome sia stata assai tiepida. Il motivo di questo scarso entusiasmo non è noto.

Tra i predecessori di Salamé si è distinto per cialtroneria lo spagnolo Leòn che prima ancora di lasciare il mandato aveva accettato un robusto stipendio di 50mila euro al mese da un’istituzione degli Emirati, uno dei Paesi che insieme a Egitto, Francia e Russia appoggiano il padrone della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. Proprio ad Abu Dhabi si è tenuto un primo incontro tra Al-Sarraj e Haftar lo scorso 2 maggio e dietro la stretta di mano tra i due all’Eliseo organizzata da Macron, un incontro cui ha partecipato anche Salamé, c’è l’intenso lavoro diplomatico degli Emirati che in Libia vogliono contrastare la presenza del Qatar.

La mossa di Macron era stata preceduta da un’altra manovra strategica: il presidente francese era volato a Bamako, in Mali, per lanciare una forza militare congiunta di quasi 4mila uomini messi a disposizione dal G5 Sahel (Mauritania, Mali, Burkina, Niger e Ciad) che affiancheranno le truppe francesi nella lotta ai jihadisti. Da una parte il negoziato, dall’altra il tentativo di creare una “cintura di sicurezza” a Sud della Libia.

Salamé è venuto ieri a Roma, lodando la missione italiana a Tripoli, per consegnarci un chiaro messaggio: è ora che trattiamo con Haftar. «L’ho incontrato a Parigi: ha un impatto rilevante su una parte della Libia e seguaci nel popolo libico. Sarebbe poco realistico per un inviato dell’Onu ignorare questa forza». In poche parole se non si tratta con il generale in Libia non si va avanti. Salamé ha compreso che se vuole lasciare il segno deve evitare gli errori commessi dai suoi predecessori. Kobler ha accettato l’idea di scendere a patti con Haftar solo sul finale del suo mandato. Salamé parte invece con il vantaggio di questa consapevolezza. Non è a Tripoli forse che si decide il destino della Libia. Da mesi la partita si gioca in gran parte a Est, nella Cirenaica, lungo l’asse che collega Haftar ai suoi alleati, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, la Russia e la stessa Francia. È venuto il momento, con grave ritardo, di agire di conseguenza.


*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore

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