Percorrendo le viuzze di una strage mai dimenticata



di Bassam Saleh

Era il 2002. Decisi di partecipare ad un viaggio in Libano con Stefano Chiarini, fondatore, assieme ad altri, del Comitato per non dimenticare il massacro di Sabra e Chatila. Era la prima volta, dopo il 1982, che tornavo in Libano con il Comitato, e da allora, tutti gli anni, ho fatto parte della delegazione italiana per commemorare quell’eccidio, definito da Stefano “il massacro del secolo”.


Quest’anno ricorre il 35° anniversario e, assieme ad una folta e bella delegazione italiana, abbiamo visitato sei campi profughi palestinesi in Libano. Sparsi fra il centro, il sud ed il nord del paese del cedro. Incontrando profughi, familiari delle vittime di Sabra e Chatila, autorità del governo locale libanese ed organizzazioni politiche palestinesi, uomini di cultura, maestri del giornalismo libanese, partiti libanesi, dai nasseriani ai comunisti, e, non ultimo, anche Hezbo Allah.


L’obiettivo del comitato, basato sulla solidarietà politica, è far vedere e conoscere direttamente ai delegati le reali condizioni di vita dei palestinesi in Libano e la situazione politica di questo paese, che è il termometro della situazione generale nella regione.


Tutte le volte che percorro le viuzze di Chatila ho sempre la stessa sensazione. Ho paura di guardare le porte delle case, di offendere chi è stato trucidato senza colpa, ad ogni passo mi sembra di calpestare i resti di un bambino, di un giovane, di una donna. Mi si congelano le lacrime, e i miei passi si rallentano, sembra di camminare in un cimitero abbandonato a sé stesso.


Un senso di colpa e vergogna che copre l’intera umanità, per il silenzio assordante, durato per ben 72 ore di mattanza e per i 35 anni a seguire. Mancanza di giustizia per le vittime come per i loro familiari. Una vergogna per chi ha ostacolato i processi giudiziari, cambiando anche le leggi che permettevano di processare i responsabili e i loro complici di questo orrendo crimine contro l’umanità.


Dagli incontri con alcuni familiari delle vittime usciamo scossi dal racconto, emotivamente provati. Non chiedono vendetta né occhio per occhio, ma giustizia. Alcune persone aspettano ancora notizie di un figlio o un parente stretto, i cui corpi non sono mai stati ritrovati. Sono gli scomparsi, i desaparesidos dei giorni della mattanza.


Si parla di circa cinquemila persone, cui vanno aggiunte altre tremilacinquecento uccise dai falangisti libanesi sotto il controllo complice dell’esercito israeliano che occupava Beirut e che illuminava i campi di Sabra e Chatila, al fine di facilitare lo sporco e disumano lavoro.


In Libano i profughi palestinesi sono 380 mila, secondo l’UNRWA, l’Agenzia dell’ONU nata nel 1948 per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi.
Vivono in 12 campi distribuiti sul territorio libanese e la superficie di ogni campo è meno di 1 chilometro quadrato. E sono in queste condizioni da circa settanta anni, senza nessuna possibilità di ampliamento orizzontale delle costruzioni, per soddisfare l'esigenza della crescita demografica. Si è, invece, sviluppata una edilizia verticale, senza alcun piano urbanistico. Questo ha causato, assieme alla mancanza di infrastrutture vere, una giungla abitata da essere umani. I vicoli sono strettissimi, giusto lo spazio per il transito di una persona per volta, il sole non raggiunge la maggior parte delle case. Manca proprio l’aria, il che è causa di varie malattie legate all’ambiente.


Non mancano i problemi sociali, la disoccupazione diffusa in tutti i campi per l’assurda legge libanese che vieta ai palestinesi di lavorare legalmente in ben 37 professioni ( medici, ingegneri, farmacisti, ecc.). La disoccupazione fra i palestinesi del libano supera il 50% e in alcuni campi anche il 60%.
I giovani, disperati per una situazione insopportabile, per la povertà e per la mancanza di una prospettiva di vita, hanno tanta voglia di lasciare il campo in cui risiedono ed emigrare altrove, alla ricerca di un futuro migliore.


Ciò che preoccupa molto i politici palestinesi e le associazioni non governative è la paura che questo ambiente cosi miserabile sia il luogo ideale per l’infiltrazione dei predicatori dell’estremismo e delle frange terroristiche. Come è già accaduto a Naher El Bared (vicino a Tripoli) nel 2007, dove si sono infiltrati i terroristi di Fateh Al Islam. L’intervento dell’esercito libanese è finito con la distruzione del campo e lo sfollamento di migliaia di palestinesi, che hanno trovato alloggio temporaneo da parenti e amici,in attesa della ricostruzione e del ritorno al campo. Una ricostruzione che, dopo 10 anni, non è ancora completata. A causa, guarda caso, del mancato versamento dei fondi stanziati dai paesi donatori, un terzo delle case resta ancora distrutto.


La guerra imperialista in e contro la Siria ha comportato la distruzione di un altro campo palestinese, al Yarmuk, causando la morte di tanti profughi e l’immigrazione di tanti altri verso il Libano. Una seconda Nakba, un altro rifugio che ha aggiunto altri problemi ai rifugiati del Libano. Per fortuna, nonostante tutte le difficoltà oggettive, hanno trovato ospitalità e sostegno concreto.


Dopo i successi militari contro l’Isis e i suoi sostenitori, e le minacce israeliane contro Hezb Allah, l’opinione sulla Siria di tanti intellettuali libanesi si può sintetizzare cosi. Solo uno squilibrato può pensare di attaccare l’Iran, la Siria o il Libano, perché questa alleanza, che parte da Teheran passando per Baghdad e Damasco fino al Libano, è forte anche dell’appoggio della Russia. È ormai un' alleanza solida, consolidata durante la guerra per proteggere la Siria e sconfiggere l’Isis. Un'alleanza che ha vinto questa battaglia.
Ora il quesito è: come si procede alla ricostruzione politica del paese e che tipo di sistema avrà la Siria? Dalla risposta dipenderà il futuro della Siria, si capirà se ha vinto la guerra o solo una battaglia.


In tutti gli incontri che abbiamo avuto, sia a livello politico che con le famiglie, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, previsto nella risoluzione ONU 194 del 1948, è stato al centro delle discussioni, ed è per tutti la soluzione a tutti i problemi dei palestinesi in Libano.



Il loro amore, il loro sogno è vedere il giorno in cui potranno finalmente lasciare questi campi e ritornare nelle loro case, alle loro terre, che sono stati costretti a lasciare sotto le minacce delle armi e dei massacri, che non si sono mai fermati.


I campi profughi, e non solo in Libano, sono il simbolo del diritto al ritorno, ma anche della più grande ingiustizia che i palestinesi hanno subito.Sono un simbolo di resistenza contro l’ingiustizia e contro l’occupazione israeliana, avamposto dell’imperialismo mondiale.


I partecipanti alla delegazione organizzata dal Comitato per non dimenticare, come diceva il nostro compagno Maurizio Musolino, sono quella parte dell’occidente che non si sente rappresentata dalle posizioni dei loro governanti, i quali girano la testa dall’altra parte quando si parla di Palestina, di libertà e di giustizia. Noi continueremo il nostro lavoro per non dimenticare e per far vivere la memoria di un popolo che vuole essere in pace nella giustizia.

A Maurizio è stata dedicata una targa che lo ricorda, posta su un gruppo elettrogeno donato al centro di ricamo palestinese nel campo di Chatila. Un ringraziamento a tutti quelli che hanno contribuito a rendere possibile questo dono .

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