Safaa Dhaher, ricercatrice palestinese: "La provocazione di Trump ha dato nuova vita alla richiesta di giustizia contro l'occupazione"

di Patrizia Cecconi - Betlemme, 12 febbraio 2018


A due mesi dalla dichiarazione del più rozzo presidente che gli Usa abbiano avuto fino ad oggi, relativa allo status di Gerusalemme, il rifiuto palestinese resta netto e deciso nonostante le manifestazioni di protesta abbiano spezzato ancora numerose giovani vite per mano dei soldati israeliani occupanti.





Fin qui potremmo dire, tristemente, “niente di nuovo sotto il sole”, al punto che i quotidiani ferimenti, uccisioni o arresti di palestinesi non fanno neanche notizia per i media main stream i quali, infatti, li ignorano rendendoli inesistenti agli occhi del mondo.


Stesso discorso vale per l’abusiva presenza di oltre 760 km di muro israeliano illegalmente costruito e “insignificativamente” condannato dall’Onu. Una barriera di cemento che va infiltrandosi nei Territori palestinesi occupati col doppio scopo di rubarne i più fertili e di impedire la creazione di un vero stato palestinese, burlandosi della legalità internazionale.




Tutto questo, per chi è appena un po’ attento alle questioni che agitano il Medioriente è fatto noto, pertanto lo sconcerto è massimo se, conoscendo un po’ la situazione, ci si trova per caso di fronte a qualche pagina della libera e frequentatissima enciclopedia online Wikipedia che, nel caso specifico, sembra l’applicazione esatta di quanto George Orwell descriveva nell’inquietante romanzo “1984”.


Cambiare la storia attraverso la “neolingua”, cancellare quel che deve sparire e mescolare il resto per ricostruire un dato ex novo ma percepibile come memoria storica secondo l’ordine del Grande Fratello: questo abbiamo trovato casualmente su Wikipedia digitando il nome di una cittadina palestinese di 27.000 abitanti confinante con Gerusalemme.



Avendo deciso di far conoscere attraverso una testimonianza diretta la valenza ingiuriosa della proposta che Trump e il saudita Salman hanno fatto al popolo palestinese per privarlo di Gerusalemme est, abbiamo pensato di intervistare una sociologa nata ad Al Azariyeh e docente all’università statale di Abu Dis, cittadina confinante sia con Gerusalemme che con Azaryieh e proposta dai due succitati campioni della pace come capitale del futuro, ipotetico Stato di Palestina.





Al Azariyeh, cioè la città di Lazzaro, il giovane che secondo i Vangeli fu resuscitato da Gesù, si chiama anche Betania e così, digitando distrattamente il nome Betania prima di incontrare la dottoressa Safa Dhaher che ci aspetta per l’intervista, si apre la pagina di Wikipedia e il lettore viene informato che “Betania è una località della Giudea, attualmente parte della Cisgiordania, molto vicina a Gerusalemme, anche se sotto il controllo dello Stato di Palestina e separata dalla capitale israeliana da un muro.”


In sole tre righe Wikipedia ha detto al mondo che la Palestina non ha il diritto di esistere, benché l’abbia definita Stato che controlla questa località la quale si trova in una regione che viene definita col nome biblico e che quasi per caso “attualmente” è parte della Cisgiordania la quale, a sua volta, non viene definita come Stato di Palestina benché geograficamente dovrebbe esserlo. Infine Wikipedia aggiunge che Betania è separata dalla “capitale israeliana” da “un” muro.




Ma Gerusalemme NON è la capitale israeliana! il muro NON è “un” muro ma è il muro di rapina, di smembramento dei territori palestinesi, di apartheid, di chiusura e mortificazione di un popolo, è un aspetto dell’arroganza illegale di un piccolo ma potentissimo paese nato appena 70 anni fa per autoproclamazione, al di fuori della stessa Risoluzione 181 che ne proponeva la costituzione su diversa superficie geografica. Parliamo dello Stato di Israele, la cui nascita infatti viene definita “dichiarazione di indipendenza” e quindi totalmente esterna alla Risoluzione 181, del resto mai rispettata, al pari delle successive.


Tre righe di bugie perfettamente concatenate le quali, data l’autorevolezza di cui la fonte gode presso l’opinione pubblica, equivalgono ad accreditare l’illegale e illegittima pretesa di Israele, supportata dal suo padrino Trump e caldeggiata, sebbene con contraddizioni in seno al popolo, dal più grande tutore dei diritti umani e delle donne in particolare, che risponde al nome del saudita Salman: la pretesa, in contrasto con la legalità internazionale, di annettere Gerusalemme est e fare illegalmente, di Gerusalemme, la capitale dello Stato di Israele.




Arricchiti da questa scoperta andiamo all’appuntamento con la dottoressa Safaa Dhaher, in passato ricercatrice sociale presso l’università di Al Quds in Abu Dis ed ora presso l’università Bir Zeit. Safaa ha ottenuto il dottorato di sociologia in Italia e parla piuttosto bene l’italiano. E’ nata ad Al Azariyeh a occhio e croce mezzo secolo fa e ricorda perfettamente come fosse molti anni fa la cittadina in cui ha passato infanzia e adolescenza e che ormai è andata sempre più degradandosi, in particolare dopo che gli israeliani l’hanno oltraggiata e mutilata con l’illegale muro di cemento che non solo la separa da Gerusalemme, ma la divide in due, lasciandone una parte di là del muro e costringendo a un giro di circa 10 km e all’umiliante richiesta di autorizzazioni non sempre concesse chi volesse anche semplicemente raggiungere l’abitazione di un parente distante non più di 10 o 20 metri se il muro non impedisse il passaggio.


Safa ci parla del degrado psicologico che ormai accompagna il degrado economico e ambientale assolutamente evidenti e ci guida nei quartieri storici di Azariyeh per mostrarci delle splendide palazzine in pietra locale, tutte arricchite da giardini, ma ormai quasi tutte vuote a causa dello strangolamento avvenuto con la costruzione del muro, vero monumento all’abuso di potere che qui è ancor più impressionante che a Qalquilia, la cittadina a nord della Cisgiordania che Israele ha completamente chiuso con la sua ignobile barriera.


Questo crimine contro gli uomini e contro l’ambiente è ancor più impressionante qui che a Qalquilia perché al di sopra degli 8 metri di cemento si vede la vicinissima ma inarrivabile Gerusalemme, dato che la città della miracolosa resurrezione di Lazzaro si trova esattamente alle pendici del Monte degli Ulivi. Le chiome degli alberi si possono misurare a occhio, tanto sono vicini ma crudelmente inarrivabili. Chi sa che cosa significhi Gerusalemme per un palestinese, cristiano o musulmano che sia, può capire quanta frustrazione ci può essere in questo arbitrario imprigionamento. Questo ci spiega Safa facendoci da guida e portandoci lungo il muro che in alcuni punti, esattamente come a Betlemme, chiude senza via d’uscita palazzi di civile abitazione attaccandosi ad essi.


La nostra interlocutrice ha accettato di rilasciarci un’intervista ma in realtà ci sta concedendo molto di più, offrendosi di farci da guida sta intrecciando il suo vissuto personale con le sue competenze professionali. Illustrandoci alcuni punti della cittadina in cui il senso di abbandono ha prevalso sulla cura dell’ambiente ci racconta delle reazioni coraggiose ma inutili alla costruzione del muro che ha interessato perfino l’asilo delle suore comboniane, mostrando a bambini ancora piccolissimi la prevalenza della forza sulla giustizia. Il muro appare ovunque ci si giri, in alcuni punti arricchito da graffiti che inneggiano a figure della resistenza come Marwan Barghouti, in altri con graffiti colorati oppure nero di fumo per un tentativo di abbattimento col fuoco.

Ormai, ci dice Safa, vengono solo pochi turisti e vengono prevalentemente per turismo religioso a visitare la tomba di Lazzaro, una grotta scavata nella roccia che, peraltro, appartiene alla sua famiglia che è di religione musulmana. Accanto alla tomba di Lazzaro c’è la moschea, costruita nel XIII secolo dopo l’arrivo di Saladino, probabilmente su una chiesa crociata a sua volta costruita su chiese bizantine . Accanto alla moschea antica c’è la chiesa costruita verso metà del secolo scorso e su questa molteplicità di luoghi di culto si sofferma la nostra intervistata-accompagnatrice facendoci notare come sia normale la contiguità di luoghi sacri a più religioni su questa terra.

Da Al Azariyeh, in pochi minuti e senza vera e propria separazione se non la simbolica grande chiave del ritorno su una mappa di marmo che segna l’entrata in un’altra località, si arriva ad Abu Dis, cittadina ancor più piccola dell’altra e sempre “rallegrata” dalla presenza del muro che spezza con violenza visiva e disarmonia estetica la continuità con Gerusalemme di cui ne era un borgo periferico.




Abu Dis ha circa 11.000 abitanti ed ospita l’università di Al Quds frequentata dagli studenti cui è arbitrariamente impedito andare a Gerusalemme in quanto palestinesi.


Accanto all’università è stato costruito un edificio colorato che rende leggermente meno triste lo spettacolo del muro di segregazione che gli passa accanto, è il museo della matematica. Dentro il campus universitario Safa ci fa notare una costruzione moderna e dice che è un museo importante, si tratta del museo dei prigionieri politici palestinesi ed in esso sono raccolti documenti, foto, dossier e qualunque cosa possa rappresentare la memoria delle decine e decine di migliaia di palestinesi che negli ultimi cento anni sono stati arrestati per motivi politici, ovvero perché si sono opposti all’occupazione degli inglesi prima e degli israeliani poi.


Chiediamo a Safa quali sono state le reazioni dei suoi studenti alla dichiarazione di Trump del 6 dicembre, oltre a quelle di piazza che hanno visto l’uccisione di diversi giovani. Ci risponde che una cosa è ormai chiara sia agli studenti che ai docenti e cioè che gli Usa non sono più riconosciuti, neanche dai più moderati, come possibili mediatori. Trump ha deciso di porsi come padrino di Netanyahu schierandosi apertamente e con dichiarazione ufficiale dalla parte di Israele, motivo per cui non può essere arbitro imparziale per sua stessa scelta. Questa è ormai opinione condivisa da tutti.

Facciamo il giro di questa cittadina che pur ospitando l’università e una serie di uffici amministrativi dell’Anp, ha più l’aria del villaggio che non di una possibile capitale e, seppur l’avesse, qui nessuno accetta il regalo che Trump vorrebbe fare a Israele e tutti considerano un oltraggio l’aver solo pensato di fare quella proposta.


Safa dice che la popolazione è molto stanca, i giovani sono in bilico tra il desiderio di andarsene e quello di resistere, ma la provocazione di Trump ha dato nuova vita alla richiesta di giustizia e all’insofferenza verso l’occupazione. Occupazione che in Abu Dis e Al Azariyeh, si accompagna all’ingiuria continuamente presente di vedere Gerusalemme oltre il muro di separazione che sembrerebbe posto da Israele secondo una precisa strategia, quella di imporre ai palestinesi molto prima che Trump lo dichiarasse sfacciatamente, l’accettazione del fatto compiuto, cioè Gerusalemme sarà completamente israeliana. Ma da Betania ad Abu Dis, a chiunque lo si chieda, la risposta è “Al Quds non si cede”.

Gerusalemme è là, a due passi. E’ il cuore della Palestina storica e il simbolo di tre culture religiose che possono solo condividerla. Noi possiamo andarci liberamente perché siamo stranieri, loro possono solo guardarla attraverso il muro perché sono palestinesi. “L’arbitrio israeliano è sotto gli occhi di tutti - dice Safa - ma solo venendo e guardando se ne coglie la portata e chi vive o lavora tra Betania e Abu Dis ce l’ha ogni giorno davanti agli occhi”.

Finiamo così il nostro incontro, salutiamo la dottoressa Dhaher e torniamo a Betlemme dove il muro prosegue, ci arriviamo col service, facendo la strada dei palestinesi, la strada dell’apartheid.


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