Boeing MH17: la Malaysia mette in discussione le “conclusioni” del Team “investigativo” internazionale

di Fabrizio Poggi

Sembra riaprirsi la questione del Boeing 777 della Malaysia Airlines, abbattuto sul Donbass nel luglio 2014 mentre era in volo da Amsterdam a Kuala Lumpur sulla rotta MH17. E, forse non a caso, ciò avviene sullo sfondo di rapporti internazionali, alcuni in continua evoluzione e altri nemmeno tanto “tranquilli”. Solo per citare le ultime mosse: l'incontro a sorpresa tra il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e Kim Jong Un a Pyongyang, in vista del prossimo vertice USA-RPDC del 12 giugno a Singapore, per un verso; la disputa commerciale USA-UE per i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, forse non ancora una guerra, ma con buone probabilità di causare scossoni nel panorama mondiale, dall'altro. E si riapre, la questione del Boeing, guarda caso, immediatamente dopo la messinscena “evangelico-mediatica”di Kiev, che ha obbligato anche i più imperterriti ammiratori degli euronazisti ad ammettere che, forse, come minimo, l'etica giornalistica stia da un'altra parte e tutto quello che dicono a Kiev vada forse letto alla luce delle mosse e della nazipolitica ucraine.

Dunque, appena la scorsa settimana aveva campeggiato sui media la sparata australiano-olandese che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto costituire “l'ultima parola” a conclusione delle – ci si passi il termine - “indagini internazionali” sull'abbattimento del Boeing civile e sancire l'ennesimo “ha stato Putin”; ma ecco che ieri la maggior parte delle agenzie riportavano la notizia secondo cui, il 30 maggio, il Ministro dei trasporti malese Anthony Loke aveva dichiarato a Channelnewsasia che “non ci sono prove conclusive per confermare che la Russia sia responsabile per l'abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines”, costato la vita a 298 persone, di dieci diverse nazionalità.

Ecco che, nemmeno una settimana dopo l'annuncio delle “conclusioni” della JIT (Joint Investigative Team: Australia, Olanda, Belgio, Malaysia, Ucraina) secondo cui il razzo “Buk” che aveva abbattuto l'aereo malese non sarebbe stato sparato dalle truppe ucraine, bensì da un reparto della 53° brigata missilistica russa che scorrazzava su e giù tra Kursk e la frontiera ucraina. Uno dei se sistemi-razzo “Buk” in dotazione alla brigata, il numero 332, sarebbe stato spostato verso il Donbass e, da lì, avrebbe sparato. Per quanto riguarda le colpe, ha detto Loke, e "chi sia responsabile - non si può semplicemente puntare il dito sulla Russia"; e ha aggiunto che “ogni ulteriore azione sarà basata su prove conclusive”, tenendo conto “delle relazioni diplomatiche". Dopo le “conclusioni” esternate il 24 maggio congiuntamente da Amsterdam e Canberra, Vladimir Putin aveva detto che la Russia non le riconoscerà, finché non saranno ammessi alle indagini anche esperti russi e aveva ribadito che Mosca ha sempre, “sin dall'inizio, proposto un lavoro congiunto per investigare sulla tragedia”. Proposta, peraltro, sempre respinta, non solo da Kiev, ma anche dai suoi tutori d'oltreoceano.

Un discorso, quello di Putin, appena appena (si far dire!) un più serio delle accuse (e cosa altro ci sarebbe stato da aspettarsi?) lanciate contro Mosca dal SBU golpista e “appena appena” un po' più logico del cervellotico percorso ipotizzato congiuntamente da Bellingcat, The Insider e McClatchy per addossare la colpa alla Russia, secondo cui il “Buk” responsabile dell'abbattimento sarebbe rientrato in territorio russo passando per Debaltsevo e Lugansk, dovendo quindi percorrere almeno 250 km, per la maggior parte controllati all'epoca dalle forze ucraine, quando invece, dal luogo del presunto lancio (il Boeing era precipitato nell'area del villaggio di Grabovo, poco sopra Torez, una settantina di km a est di Donetsk) fino alla frontiera russa ci sarebbero stati appena un paio di decine di km, per di più da percorrere in territorio controllato dalle milizie.

Tra l'altro, oltre a non prendere mai in considerazione le varie ipotesi avanzate da esperti stranieri, dai tecnici russi della società produttrice del sistema missilistico presunto responsabile della tragedia, le testimonianze di aviatori e piloti ucraini, insomma, niente che potesse adombrare il minimo dubbio sulle responsabilità ucraine, Kiev non ha nemmeno mai risposto alla semplice domanda sul perché non avesse provveduto a chiudere ai voli civili il corridoio aereo sopra una zona di guerra.

L'impressione insomma è che, dopo la figura meschina consumatasi mercoledì pomeriggio a Kiev, al briefing congiunto SBU-Procura-ATR tataro, la credibilità ucraina faccia fatica a esser sostenuta anche dai più incalliti filogolpisti di mezzo mondo, ai quali ora, nota Vsepodrobnosti.ru, non resta altro che mettersi a insinuare dubbi su “corruzione, finanziamento del terrorismo e amicizia con Putin” del povero Ministro malese, che ha osato avanzare un legittimo e timido dubbio su “conclusioni” così affrettate e di parte.

Un dubbio che appare quantomeno problematico accantonare, specialmente ora, dopo il discredito sul SBU di Vasilij Gritsak e la Procura dell'elettrotecnico Jurij Lutsenko, che loro stessi si sono auto-assicurati; senza parlare della credibilità mediatica del “resuscitato” Arkadij Babcenko, su cui è il caso di stendere l'evangelico sudario del novello Lazzaro.

Un dubbio così forte che già anche il Ministro degli esteri olandese Stef Blok, fino a due giorni fa convintissimo delle responsabilità russe, ha detto ieri di non escludere la possibilità che Kiev, nonostante al momento non esistano “seri fondamenti giuridici”, venga chiamata a rispondere della tragedia.


Oltre alle reazioni di OSCE, politologi britannici e francesi, Ministro degli esteri belga Didier Reynders, si sprecano i commenti di giornalisti occidentali – The Washington Post, Financial Times, Channel 4, Deutsche Welle– che esprimono “sdegno” per il discredito gettato in tal modo su giornalisti, agenzie di stampa, redattori, commentatori e, in generale, sull'intera categoria giornalistica dalla “manipolazione operata dai Servizi ucraini, con cui”, come ha detto il Segretario generale di Reporters Sans Frontières, Kristof Deluar, “essi hanno dato inizio a una nuova guerra informativa”.

Ma, forse, come si dice, “non tutto il male vien per nuocere”.

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