Reportage dal border di Al Bureji a est di Gaza



di Patrizia Cecconi

Ieri è stata una giornata "buona" alla #GrandeMarcia . Ci sono stati "neanche" duecento feriti, tra cui alcuni bambini e un giornalista palestinese, uno di quei volontari dell'informazione che ancora credono che il giubbetto con la scritta PRESS sia una difesa e non un target. Avrebbero ragione se Israele rispettasse la normativa internazionale, ma così non è e neanche ha mai pagato per non rispettarla, vedi i numerosi attacchi alle ambulanze in tante drammatiche occasioni o, più recentemente, il ferimento e l'uccisione sia di personale medico che di giornalisti.

Ieri era la giornata dedicata ai feriti e molti di questi, quelli usciti dagli ospedali, erano presenti.

Con interprete e "guardie del corpo" che il venerdì non mi abbandonano mai, ho raggiunto il border di Al Bureji. Faceva terribilmente caldo ed era piuttosto presto ma già qualche centinaio di coraggiosi di diverse età avevano raggiunto il popolo delle tende, cioè i dimostranti stanziali sulla cui tenda è scritto il nome dei villaggio d'origine.

Vengo immediatamente fermata dal comitato di sicurezza, ci vuole poco a capire che sono straniera e devo mostrare il passaporto. Mi spiegano che è per la mia sicurezza, ma è una procedura che già conosco e stavolta gli ho portato pure la fotocopia del passaporto e del mio permesso di soggiorno. Non la vogliono, si affidano al loro smartphone e fanno una foto del documento originale. Mi fanno qualche domanda che so già a memoria visto che è dal 30 marzo che seguo la grande marcia e poi, come sempre, mi ringraziano e mi offrono l'immancabile caffè.

E' molto presto e ne approfitto per raccogliere qualche storia. Vicino alla tenda che porta il nome di "quatatie" c'è un uomo seduto all'ombra di un olivo. Dice che non si muoverà da qui finché non verrà riconosciuto il diritto sancito dall'Onu che gli permetterà di tornare almeno a vedere il suo villaggio. Gli chiedo il suo nome e mi risponde in inglese "I'm son of a martyr and father of a martyr, my name is in my life". Sono figlio di un martire e padre di un martire, il mio nome è nella mia vita". Accetto il tè alla menta che mi offre e ripeto quella frase che ormai sento molto debole davanti a certe situazioni, ma non ne ho altre. Ripeto la solidarietà mia e di quella parte di popolo italiano che conosce la storia della Palestina e che odia l'ingiustizia. Poi, augurandogli di vincere la sua battaglia vado a proseguire il mio giro.

C'è un carrettino con gelati e il venditore ha una maglietta di un colore che sembra fatto apposta per essere visto da lontano. Gli chiedo se posso fargli una foto (ormai qualche parola la conosco e per le comunicazioni semplici sono autonoma) e alla sua risposta affermativa scatta immediatamente la V di vittoria. Faccio appena in tempo a scattare la foto che si piega in avanti si gira e scappa. Mi arriva negli occhi, anzi in un occhio ad essere precisa, qualcosa che brucia e penso alla sabbia che si è alzata col vento. La mia interprete mi grida don't touch your eyes! In un secondo sento l'odore che prende alla gola. Ho capito. Così, senza motivo, ci hanno lanciato un tear gaz. Ho la mascherina col filtro, regalo di qualche venerdì fa. La indosso subito ma non servirà perché è solo un assaggio inviatoci così, tanto per non essere dimenticati. Stiamo nella parte delle tende, a circa 700 metri dal border, cosa vogliono? Ma la mia interprete mi ricorda due cose: la prima è che anche la nostra macchina, ad aprile, stava a 700 metri e "i cugini", come li chiamano loro, ci hanno spaccato il parabrezza con un lacrimogeno. La seconda è che Zakaria, il ragazzino morto dopo tanti giorni di agonia e la cui foto oggi verrà portata alla marcia, era proprio qui quando gli hanno sparato alla schiena devastandogli stomaco e intestino.
Bene, ci spostiamo e facciamo molta attenzione. intanto arrivano alla spicciolata gruppi di ragazzzi, di donne, e tanti, tanti giovani sulle stampelle o sulla carrozzina. Tutti invalidi, temporanei o permanenti, resi tali dai proiettili israeliani. Alcuni si vede che camminano con grande fatica, altri meno, ma tutti portano la loro invalidità con fierezza. Uno ha addirittura una rosa rossa infilata nell'ingessatura. Un altro la tiene divertito tra le labbra. Non c'è bisogno di troppe parole per commentare la loro presenza, è LA LORO STESSA presenza che parla e sembra di dire "siamo qui e ci saremo ancora, e ancora e ancora".

Oggi tanti ragazzini chiedono foto, e chiedono anche di essere fotografati con me. E' un onore per me, anche se sono loro a dirsi onorati.

Seguiamo i gruppi che vanno a posizionarsi sulle dune, faccia a faccia sebbene a diverse centinaia di metri dai loro assedianti. Vedo le jeep dell'IOF che cominciano a girare. A un certo punto scatta un grande applauso. Che succede? è partito un aquilone? è arrivato qualche personaggio famoso? No, semplicemente sono arrivati i cecchini ed hanno preso posto sulle loro dune. Gli shabab li hanno applauditi! Nooo!!! incredibili! Questi gazawi con la #GrandeMarcia hanno sviluppato, o semplicemente tirato fuori un'ironia che era sopita e che si manifesta continuamente. Applaudono i killer!

Torno a parlare, vado nella zona in cui sono raccolte la maggioranza delle donne. Non amano essere fotografate e non lo faccio. Sono determinate quanto i loro figli e i loro fratelli. Hanno età diverse, ma sono soprattutto donne mature, le ragazze sono quasi tutte in giro o sulle dune.

Finalmente assisto alla preparazione in diretta di alcuni aquiloni. Confesso che sono ammirata. E' l'idea più geniale che possano aver avuto. Non importa che qualche sepolcro imbiancato o qualche valletto mediatico di Israele la consideri azione terroristica, ormai lo sanno anche i muri che è una parola fasulla, sono invece la prova della genialità creativa, quella che manda una fiammella che non uccide nessuno ma che ricorda all'assediante che l'assedio deve finire.

Non posso fotografare i ragazzi che li preparano per motivi di sicurezza, ed è un peccato perché la fierezza dei loro visi vale quanto una cura a base di dignità.

Intanto sono passate alcune ore e si prepara la banda musicale, poi si preparano i bambini che faranno la loro pièce teatrale e gli uomini "importanti" che arriveranno a dire due parole per evitare di essere scavalcati del tutto e poi dimenticati dal popolo che ha scelto di dire stop alle divisioni. Le ambulanze sono pronte. Medici e paramedici sanno che tra un po' cominceranno a lavorare. Gli ospedali più vicini sono in attesa, ma questa fantastica esperienza della Grande marcia non si fermerà, ci hanno provato sia dall'esterno che dall'interno, ma non ci sono riusciti.

Mi fermo qui. Non vi mando foto di feriti ma solo di una giornata passata al border di Al Bureji per testimoniarvi con qualche foto e con le mie parole un pezzeto di realtà del popolo che i media più sciocchi o più asserviti al loro padrone, seguitano a chiamare terrorista.

Auguri ai feriti, soprattutto a quelli gravi e speriamo di vederli in campo, fieri e forti, i prossimi venerdì.

Da al Bureji per ora è tutto.

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