Sciopero generale in Tunisia contro i tagli ordinati dal Fondo Monetario Internazionale



di Chiara Cruciati - Il Manifesto

La Tunisia torna in piazza, in massa, a dieci giorni dall’ennesimo rimpasto di governo, ottenuto dal premier Youssef Chaled per il rotto della cuffia. Una fiducia sudata, dopo ore di discussione e a cui Nidaa Tounes, parte (finora) della coalizione capeggiata da Ennahda, non ha nemmeno partecipato.


Ieri la prima sfida l’hanno lanciata 670mila dipendenti pubblici tunisini: uno sciopero generale partecipatissimo (ha aderito il 95% dei lavoratori, affiancati da decine di migliaia di persone in tutto il paese) che rimette sul tavolo una questione centrale e inevasa, l’aumento del salario. A fronte di un’inflazione rampante e l’incremento costante del costo dell’elettricità.


In migliaia, nella capitale, si sono ritrovati di fronte al parlamento al grido di «Vergogna» e «Tunisia libera», mentre ospedali, scuole e uffici pubblici chiudevano i battenti e altrettanti manifestanti scendevano per le strade di Kasserine, Sfax, Gabes, Sidi Bouzid. Tutti a ripetere lo stesso, diffuso, problema: i soldi non bastano a vivere e a coprire i prestiti che le famiglie sono costrette a chiedere quando il salario medio di un insegnante è fermo a 300 euro.


Il governo ribatte: aumentare gli stipendi di 670mila persone significherebbe investire 2 miliardi di dinari tunisini, 602 milioni di euro. Non ci sono, dice. Ma Tunisi non intende cedere alle pressioni della base perché è costretta a fronteggiarne un’altra di pressione, quella colossale del Fondo monetario internazionale che minaccia di tagliare il flusso di prestiti, quei 2,8 miliardi di dollari accordati nel dicembre 2016.


E la base alza la voce. Quello di ieri è stato lo sciopero più partecipato degli ultimi cinque anni, guidato dal sindacato Ugtt, fin da subito contrario alle imposizioni dell’Fmi sotto forma di riforme di austerity per ridurre il debito. Hanno aderito Nidaa Tounes, Blocco democratico e Fronte popolare. E non finisce qui: se oggi si riposa, un nuovo sciopero è indetto per domani.


La decisione di tornare in piazza è arrivata dopo i falliti negoziati dell’Ugtt con l’esecutivo, un dialogo che aveva condotto il mese scorso a rinviare le proteste. A ottobre Tunisi era sembrata piegarsi, accettando un primo incremento salariale per 150mila dipendenti pubblici. Poi il governo «si è rimangiato le promesse», diceva ieri Nizar Ben Saleh dell’Ugtt. Scomparse sotto la mannaia dei tagli del budget per il settore pubblico, dall’attuale 15,5% del Pil al 12,5% entro il 2020, e dei tagli ai sussidi per i poveri.


Tutta farina del sacco Fmi con Tunisi che faceva carta straccia dei tre precedenti accordi siglati con il sindacato: «Il governo ha abbandonato i suoi impegni verso i lavoratori per rispettare quelli con l’Fmi. Un aumento degli stipendi è essenziale per salvaguardare il potere d’acquisto della classe media, la colonna portante dell’economia tunisina».


Lo ribadisce il segretario generale del sindacato, Noureddine Taboubi: se i salari non si possono alzare, si combatta l’inflazione. E sbugiarda il governo: l’Ugtt aveva raggiunto un accordo in merito, ma il premier Chaled ha prima chiesto il via libera, cassato, dell’Fmi.


Le proteste di ieri, il braccio di ferro tra sindacato e governo e l’ultimo rimpasto che ha messo fine alla già traballante alleanza tra un partito islamista e uno laico svelano ancora una volta tutte le difficoltà della Tunisia nel superare le strutturali disuguaglianze sociali ed economiche. Quelle che otto anni fa portarono milioni di persone a realizzare nelle piazze il loro sogno democratico, la cacciata del dittatore Ben Ali. Un sogno ancora rinviato.

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