Il driver è la Cina



di Demostenes Floros - aboutenergy.com

Nelle prossime settimane il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e l’omologo cinese, Xi Jinping, potrebbero raggiungere un accordo commerciale definitivo. E l’Italia potrebbe trovarsi nella condizione di svolgere una sorta di ruolo ponte tra Pechino e Washington. Il 22 marzo scorso, il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha incontrato a Roma Xi Jinping. Il giorno dopo, alla presenza dello stesso Xi e del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, i governi dei due paesi hanno fimato un Memorandum di Intesa (MoU) che conferirà a Roma un ruolo rilevante all’interno della cosiddetta Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, Bri), l’immenso progetto infrastrutturale transcontinentale cinese. L’Italia è il primo Stato del G7 e il quinto membro dell’Ue, dopo Polonia, Ungheria, Grecia e Portogallo, ad aderire a questo piano strategico Eurasiatico.


Il 1 aprile scorso, il quotidiano economico finanziario Il Sole 24 Ore pubblicava un articolo dal titolo: “L’identità manifatturiera nella risposta europea”. L’autore, Paolo Bricco, scriveva che la struttura degli equilibri del capitalismo internazionale di lunga durata stava sperimentando un altrettanto profonda riconfigurazione. Nello specifico:


1. Secondo i dati forniti dall’Unctad, nel 1991, il 36 per cento del valore aggiunto industriale globale, inteso come la differenza tra i ricavi e i costi totali al netto dei costi del lavoro, era riferibile all’Europa e il 24 per cento al Nord America. Nel 2017, dopo più di dieci anni di crisi, queste quote erano rispettivamente scese al 25 per cento e al 22 per cento;


2. Dal 2000, gli USA hanno perso il 27 per cento dei posti di lavoro nella manifattura (quantificabili in circa 6.000.000), l’Italia il 12 per cento, la Germania l’8 per cento;


3. In base al Rapporto Scenari Industriali di Confindustria pubblicato l’8 novembre 2017, la quota di produzione manifatturiera cinese su quella globale è aumentata dal 5 per cento nel 1995, all’8 per cento nel 2000, al 12 per cento nel 2005, al 19 per cento nel 2010, al 22 per cento nel 2012 e al 29,5 per cento nel 2017. Nel contempo, quella USA è scesa al 19 per cento mentre quella tedesca al 5,9 per cento. Stabile anche la settima posizione dell’Italia, con una quota costante del 2,3 per cento, mentre la Russia con l’1,2 per cento scende al quindicesimo posto per effetto della grave recessione che ha colpito il Paese nel triennio 2014/16. Le prime stime relative al 2018, mostrano che la quota della Cina è accresciuta al 32 per cento, quella della Germania è calata sotto il 5 per cento e l’Italia mantiene la medesima posizione nella classifica globale.


È importante osservare che questa nuova redistribuzione geografica della manifattura si accompagna a una crescita della domanda globale di gas naturale – +3 per cento nel 2017, equivalente a 96 Gm3, il massimo incremento dal 2010 – la quale è stata trainata soprattutto, dal settore industriale e non più da quello della generazione elettrica, come era invece avvenuto nel corso del decennio precedente.

Di seguito, il paniere energetico 2017 della Cina:

1. Carbone – 61 per cento (decrescente anno su anno, sia in termini relativi, sia assoluti, era il 66per cento nel 2014);

2. Petrolio – 19 per cento;

3. Idroelettrico – 8 per cento;

4. Gas Naturale – 7 per cento (6 per cento in 2014);

5. Rinnovabili – 3 per cento;

6. Nucleare – 2 per cento

Nel 2017, i fornitori di gas naturale della Cina sono stati:

1. Produzione interna – 62 per cento;

2. Turkmenistan – 13 per cento;

3. Australia – 10 per cento;

4. Qatar – 4 per cento;

5. Malesia – 3 per cento;

6. Altri – 8 per cento.

La Cina necessita di modificare quanto prima la struttura qualitativa del proprio mix energetico, muovendo dall’uso massiccio di carbone a quello di gas. A tal riguardo, nel 2018, il paese ha importato 90,39 milioni di tonnellate di oro blu [pari a circa 122,9 Gm3 a 39 MJ/m3], il 32 per cento circa in più rispetto all’anno precedente, rafforzando la propria posizione di principale importatore al mondo. Secondo le previsioni dell’International Energy Agency, la Repubblica popolare cinese, spinta dalla continua crescita economica e dal forte sostegno politico per ridurre l’inquinamento atmosferico, rappresenterà il 37 per cento dell’aumento globale del consumo di gas tra il 2017 e il 2023.


Inoltre, nel 2018, la Repubblica Popolare ha confermato anche la propria leadership mondiale di importatore di petrolio. In conformità con i dati forniti dalle dogane cinesi, l’import di greggio della Cina ha toccato il nuovo record di 10.430.000 b/g a novembre 2018, incrementando dell’8,5 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e oltrepassando il precedente massimo di 9.610.000 b/g registrato a ottobre 2018.

Oil market: i trend di marzo


A marzo 2019, il prezzo del barile è aumentato di circa 3,5 $/b, venendo scambiato attorno al massimo da quattro mesi a questa parte. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le quotazioni a 64,99 $/b e le ha chiuse a 68,36 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha aperto a 56,2 $/b, per poi chiudere a 60,22 $/b. Nel momento in cui scriviamo (7 aprile 2019), il Brent viene scambiato a 70,93 $/b e il WTI a 64,08 $/b, perché l’Arabia Saudita ha ridotto il proprio output per un ammontare superiore rispetto a quello stabilito con i rappresentanti dell’OPEC+ durante il meeting di novembre 2018 e in virtù del cauto ottimismo concernente l’esito dei colloqui commerciali USA-Cina, il cui raggiungimento potrebbe influenzare positivamente la futura domanda petrolifera. Da ultimo, ma non certamente di minore importanza, la ripresa del conflitto militare in Libia.


Nello specifico, i prezzi del greggio sono costantemente cresciuti sino al 20 marzo 2019 – rispettivamente quotando 68,3 $/b e 60 $/b – poiché le scorte commerciali statunitensi sono decresciute da 449.072.000 barili l’8 marzo 2019 a 439.483.000 barili il 15 marzo 2019. In seguito, sono leggermente diminuiti a causa dell’apprezzamento del dollaro (€/$ 1,1218 il 28 marzo) prima di aumentare nuovamente sulla scia delle dichiarazioni del Ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, il quale ha affermato che la Federazione Russa avrebbe raggiunto la propria quota di tagli a inizio aprile (-228.000 b/g).


A partire dal 2019, i prezzi dei benchmark asiatico-europeo e statunitense sono rispettivamente incrementati del 25 per cento e del 30 per cento nella misura in cui i tagli dell’OPEC+, in aggiunta ai cali estrattivi in Venezuela (-142.000 b/g a febbraio, ma stabili a marzo) e Iran, hanno più che controbilanciato la crescente produzione di tight oil USA (12.100.000 b/g da febbraio).


Secondo la banca Goldman Sachs, “l’ultimo rally del Brent ha portato i prezzi al picco di 67,5 $/b, tre mesi prima rispetto a quanto da noi preventivato. Nel prossimo futuro, la crescita della domanda [stimata di 1.450.000 b/g nel 2019] e le interruzioni delle forniture potrebbero spingere i prezzi fino a 70 $/b. Le perdite sul versante dell’offerta, così come la crescita della domanda, stanno superando le nostre aspettative […] mentre le posizioni nette di lungo periodo rimangono tuttora depresse”.


Questa situazione potrebbe potenzialmente rappresentare una perfetta tempesta di stampo rialzista, a meno che il prossimo maggio Donald Trump non proroghi le deroghe nei confronti degli acquirenti di petrolio iraniano attualmente sotto sanzioni USA.

Gli ultimi dati


Conformemente alle cifre fornite dall’Oil Market Report pubblicato dall’IEA il 15 marzo 2019, l’offerta globale petrolifera è crollata di 340.000 b/g a febbraio, per complessivi 99.700.000 b/g. In particolare, l’output dell’OPEC è diminuito di 250.000 b/g, a 30.680.000 b/g. Le scorte commerciali dell’OCSE sono cresciute di 8.600.000 barili a gennaio 2019 (mese su mese), raggiungendo il loro massimo da novembre 2017.


La domanda globale di petrolio è prevista in aumento di 1.300.000 b/g nel 2018 e di 1.400.000 b/g nel 2019 con Cina e India a trainare la crescita.


Grazie alle statistiche stilate dal Drilling Productivity Report divulgato dall’Energy Information Administration il 18 marzo 2019, la produzione di greggio non convenzionale USA è prevista aumentare di 65.000 b/g, per complessivi 8.592.000 b/g, ad aprile 2019.


L’output di greggio statunitense, dopo il precedente picco di 9.627.000 b/g raggiunto ad aprile 2015, è decresciuto fino al minimo di 8.428.000 b/g toccato il 1° luglio 2016. Dopodiché, esso ha ripreso ad aumentare fino ai 12.100.000 b/g estratti il 22 febbraio 2019 e mantenuti durante l’intero mese di marzo (previsioni settimanali).


Secondo i dati divulgati da Baker Hughes il 29 marzo 2019, le 1.006 trivelle attualmente attive negli Stati Uniti, di cui 816 (81,1 per cento) sono petrolifere e 190 (18,9 per cento) gasiere, risultano essere 32 in meno rispetto al 1° marzo 2019, il minimo da un anno a questa parte, dopo essere decresciute per sei settimane di fila. Il 26 marzo 2019, Bloomberg ha scritto che “i frackers americani stanno stringendo la cinghia dopo il crollo dei prezzi del greggio avvenuto verso la fine del 2018 e gli investitori chiedono ai trivellatori di fare di più con meno”.


A gennaio 2019, le importazioni di greggio da parte degli USA sono significativamente accresciute a 7.520.000 b/g rispetto ai 7.099.000 b/g a dicembre 2018. Nel corso del 2018, la media dell’import di greggio statunitense è stata di 7.757.000 b/g, in calo rispetto ai 7.969.000 b/g nel 2017 e ai 7.850.000 b/g nel 2016, ma ancora al di sopra dei 7.363.000 b/g registrati nel 2015 e dei 7.344.000 b/g nel 2014.

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