Sulla "svolta più europeista" del M5S richiesta da Paola Taverna

di Omar Minniti

Dopo il grosso calo elettorale di domenica, nel Movimento Cinque Stelle si discute del suo futuro. Di Maio ha schivato il primo colpo di chi vuole mettere in discussione la sua leadership, incolpandolo personalmente dell'emorragia di voti. Gli attivisti sono stati chiamati al voto online sulla piattaforma Rousseau e, su 56.127 partecipanti, in 44.849 hanno ribadito la fiducia al vicepremier, riconfermandolo capo politico. L'80% della base è con lui, nonostante l'amarezza per un crollo inatteso, almeno non in quelle dimensioni.

Di critiche dagli storici animatori dei meetup, dai simpatizzanti, dagli elettori delusi ma rimasti fedeli, o da quelli che si sono astenuti, ne sono arrivate tante su tutti i social media. I più stigmatizzano la subalternità mediatica alla Lega, che di fatto ha oscurato l'azione del movimento nell'esecutivo Conte. Più d'uno fa notare che il M5S è stato, in tutta la storia repubblicana, l'unica forza maggioritaria di governo che non ha avuto una propria rete Rai di riferimento. Che ha dovuto affrontare il tiro incrociato, ad alzo zero, dei principali media pubblici e privati, spesso senza possibilità di controbattere. I blog e la rete, un tempo arma vincente, ora si sono rivelati poco efficaci contro la "Bestia" messa in piedi dagli spin doctors di Salvini. Inoltre, la Lega e pure il Pd - partiti classici, con strutture organizzate e verticali in ogni quartiere e paese - con il loro radicamento territoriale hanno avuto la meglio, sulla lunga distanza, sulla liquidità e la virtualità eterea del movimento.


Ma le critiche non riguardano solo i metodi organizzativi e la comunicazione. E non arrivano solo dalla base. Di Maio ha subito delle forti polemiche anche da alcuni big pentastellati. Parlamentari come Gianluigi Paragone e Carla Ruocco o la consigliera regionale Roberta Lombardi si sono espressi contro l’accumulo degli incarichi del vicepremier. Roberto Fico, presidente della Camera e figura più rappresentativa dell'ala "boldriniana" del movimento, da sempre contrario alle misure di freno all'immigrazione e vicino ad ong e "polo rosse", ha rifiutato di partecipare al voto sulla piattaforma Rousseau. Chi segue le dinamiche interne del M5S, sa che Fico è sostenitore di un dialogo con il Pd e la galassia che sta per dare vita ad un nuovo centrosinistra. Il progetto suo e di altri è di trasformare i Cinque Stelle in un soggetto più "friendly", fucsia o rosé, sensibile alle tematiche care all'intellighenzia piddina ed a pezzi della cosiddetta "sinistra radicale ed alternativa", ridotta al lumicino dopo l'ennesima batosta: porti aperti, priorità dei diritti delle minoranze sessuali, ambientalismo in salsa gretina, antifascismo con i fascisti fermi allo 0,1/0,3%, europeismo "sociale".


Un progetto che finora si muove sottotraccia, ma di cui non ne fa mistero la senatrice Paola Taverna. Intervistata da "Il Fatto Quotidiano", rivendica una svolta "più europeista" del M5S. "Forse è il momento di capire le nuove esigenze, le nuove richieste del Paese. E poi c’è l’Europa - dice la Taverna - verso cui noi siamo stati sempre molto critici. Ma erano criticità provocate da una classe dirigente che aveva tradito l’ideale europeo. Salvini si pone come quello che afferma il nazionalismo. Invece io voglio rendere l’Italia un grande Paese che si afferma dentro l’Europa". Quindi, un ulteriore strappo nei confronti dello scetticismo iniziale del M5S verso l'Ue delle banche e l'euro, sempre più diluito sotto la guida di Di Maio. Ed un chiaro segnale a chi ha orecchie per intendere nello staff di Zingaretti.

Eppure, i dati emersi dal pesante arretramento alle europee danno tutt'altro che ragione alla Taverna, a Fico e chi invoca una spennellata liberal-radical. Secondo l’analisi Ipsos sul travaso di voti ai partiti tra le politiche 2018 e le europee, solo il 3% degli elettori delusi del Movimento Cinque Stelle ha votato il Pd di Zingaretti. Un numero non significativo, fisiologico, di delusi per l'alleanza forzata con la Lega, di elettori già provenienti da sinistra e recettivi all' "al lupo, al lupo" dell'antifascismo dei "patrioti europei". Pochissime briciole, zero virgola qualcosa, sono andate a La Sinistra, Verdi e +Europa. Netta è stata, invece, la percentuale di chi si è astenuto, il 41%, mentre gli ex M5S a votare Salvini sono stati il 14%. Cifre di gran lunga più consistenti, che dimostrano come nella base "grillina" il Partito Democratico venga percepito, in generale, più negativamente rispetto alla Lega, come incarnazione della vecchia casta legata agli eurocrati ed al globalismo neoliberista. Oppure che il Carroccio e i Dem vengano posti sullo stesso piano, giudicati entrambi deleteri e specchietti per le allodole del sistema.


A restare ancora in panchina è Alessandro Di Battista. E' il leader della vecchia guardia considerato più barricadero, comunicativo ed espressione dello spirito antisistema del M5S delle origini. Lui nega il ritorno all'impegno diretto. Ma, con il governo Conte che molto probabilmente non mangerà il panettone, il suo nome sembra il più gettonato per ridare linfa e credibilità al movimento, soprattutto in una nuova fase di opposizione al nascente bipolarismo Lega/Pd.

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