Per il Corriere anti-fascismo e anti-comunismo sono la stessa cosa. La risposta del Prof. D'Orsi


di Angelo D'Orsi - Il Manifesto


A leggere la rubrica «Lo dico al Corriere», di Aldo Cazzullo sul Corriere di ieri, si rimane basiti. A un lettore che gli chiede perché in Italia l’anticomunismo non sia un valore, a differenza dell’antifascismo, il buon Cazzullo dà una risposta sconcertante. Si rammarica che non venga ancora riconosciuto universalmente come «valore» l’anticomunismo, e lo mette, per incoraggiare il lettore, sullo stesso piano dell’antifascismo, due posizioni politiche che, a suo avviso, «dovrebbero essere come l’aria e l’acqua: valori condivisi da tutti, la premessa comune di qualsiasi confronto politico».

E precisa, con un inciso autobiografico di cui non avvertivamo l’esigenza, «non ho mai avuto il mito del comunismo italiano». Dove mette conto sottolineare la precisazione: «italiano». E parte l’affondo contro Enrico Berlinguer, brav’uomo, ma «pur sempre un comunista».


Sconcertante. Non gli va giù a Cazzullo il comunismo in quanto tale: «Ovunque il comunismo è andato al potere, l’ha mantenuto con i gulag e la polizia politica». Dunque che deve arguire il lettore? Che gran fortuna ha avuto questo Paese che non ha subito il giogo comunista, e che si è invece goduto il Ventennio fascista, e ora si gode le avvisaglie di un ritorno in piena regola di quella ideologia, di quelle pratiche, di quegli atteggiamenti.



Ripeto: sconcertante, tanto più se riflettiamo sulla sede nella quale il valente editorialista scrive: il Corriere della Sera, un giornale, l’organo per eccellenza della borghesia italiana, che sostenne prima l’intervento nella Grande guerra, e prima ancora in Libia, aprendo generosamente le proprie prime pagine ai deliri nazional-imperialisti di Gabriele d’Annunzio; quindi guardò con favore a Mussolini, fino almeno al delitto Matteotti, e poi provò a distanziarsi, e il fascismo impose il cambio di proprietà e di direzione. Da allora quel giornale fu una delle voci più potenti della propaganda di regime, di cui sostenne, convintamente, ogni impresa, con uno zelo che in più di un’occasione ci appare raccapricciante.


La cancellazione delle libertà politiche, la compressione di quelle civili, le guerre, la persecuzione degli oppositori, il razzismo, fino alle oscene leggi per la tutela della razza del 1938, seguite da altra guerra, che fu l’ultima, affossando un regime che dalla guerra era nato, di guerra si era nutrito e dalla guerra fu espunto dalla storia, non senza aver trascinato nel baratro un’intera nazione…


Norberto Bobbio, ebbe a scrivere (nel 1991) di non essere mai stato tentato dal comunismo, ma neppure dall’anticomunismo, definendo la sua posizione verso i comunisti italiani con una doppia negazione: «Né con loro, né contro di loro». E questo perché Bobbio, che a differenza di Cazzullo, masticava un po’ di storia oltre che di filosofia, riconosceva da un lato tutti i meriti storici del Pci, e dall’altro l’esigenza di giustizia che dal comunismo – in tutte le sue varianti – moveva. E sempre Norberto Bobbio davanti ai fatti di Piazza Tian An Men (giugno 2009), ebbe a sentenziare, rivolto a quegli «stolti» che «fregandosi le mani» si rallegravano: «O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?».


No, caro Cazzullo, l’anticomunismo non è un «valore». L’antifascismo sì.

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