Iran, Libia, Venezuela. Lezione atlantista di Pompeo a Di Maio



di Alberto Negri* - Il Manifesto

Pompeo appare come gli italo-americani dei film di Scorsese e Tarantino: mena forte e quando gli chiedi qualche cosa di serio ti racconta un sacco di bugie.


La visita del segretario di Stato Usa Mike Pompeo aveva tre scopi. Uno: dire all’Italia di collaborare senza fare storie sul caso Ucraina, visto che anche lui è direttamente coinvolto avendo assistito alla telefonata di Trump con il presidente polacco Zelenski. Due: recapitare almeno 7,5 miliardi di dazi Usa sull’export europeo – per ora senza sconti ufficiali per l’Italia – secondo la fresca sentenza del Wto.

TRE: CONSEGNARE il messaggio chiaro e tondo che l’Iran è lo stato «aggressore» del Golfo e l’Italia si deve a piegare a questa versione della storia. Che sia stata questa amministrazione a stracciare l’accordo sul nucleare del 2015, imponendo sanzioni soffocanti a Teheran, è ovviamente secondario.


Il corollario americano di Pompeo è evidente: noi siamo la legge e voi dovete obbedire. Anche sul Venezuela, dove i Cinquestelle tempo fa erano contro gli americani e ora con un Di Maio sempre più filo-atlantista agli esteri sembrano avere cambiato idea: teniamoci a pronti a un altro golpe davanti a una pompa di benzina. A un anno dall’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, sul quale è praticamente reo confesso il principe Mohammed bin Salman, gli americani non hanno niente altro da dire che questo.

SE CI SARÀ UNA GUERRA o l’impennata dei prezzi del petrolio, o tutti e due, la colpa dunque è iraniana non loro che da decenni destabilizzano un’intera regione proteggendo vacillanti monarchie, assolute e oscurantiste. Sul resto apparentemente il nulla: niente di concreto sui dazi che colpiranno il nostro export in Usa, quasi niente sulla Libia, il maggiore disastro della politica estera italiana dalla seconda guerra mondiale. A combattere la battaglia del parmigiano e difendere gli interessi dell’Italia nel Mediterraneo è rimasta soltanto la Iena che alla presenza del premier Conte ha consegnato a Pompeo un consistente pezzo di formaggio che a Palazzo Chigi ha evocato sopraffini effluvi da salumeria di provincia. Del resto provincia siamo.


A GUIDARE LA RESISTENZA c’è il bellicoso Consorzio del Grana Padano che pochi giorni fa ha dichiarato: «Siamo pronti a manifestare davanti ai numerosi insediamenti militari americani in Italia di Montichiari, Ghedi, Longare e Vicenza per fronteggiare la decisione della Wto che ha autorizzato gli Stati Uniti a porre dazi su prodotti dell’Unione Europea per compensare il danno subito da Boeing per i finanziamenti europei ad Airbus».


Gente pronta ad affrontare il decreto sicurezza salviniano e i 16mila soldati Usa con le loro 90 testate atomiche: una presenza forte come ha rimarcato ieri Pompeo nella conferenza stampa con Di Maio. Il paisà di originario di Pacentro non va per il sottile. Raramente una missione americana a Roma è apparsa così priva di spunti, soprattutto sulla Libia di cui si discuterà tra qualche settimana in una conferenza a Berlino, che già di per sé è uno schiaffo al ruolo dell’Italia sulla sponda Sud. Qualcuno ha sussurrato che all’Italia è stata ancora una volta promessa la famosa «cabina di regia», già garantita a tre presidenti del Consiglio, Renzi, Formigoni e Conte (un anno fa al G-7 in Canada).


E se Conte ci crede ancora ha davvero bissato il record delle bufale libiche rifilate dagli Usa al nostro Paese, che durano dal 2011 visto che gli Usa bombardarono con Francia e Gran Bretagna il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo destabilizzando la Libia e l’Italia. Sulla Libia Pompeo ha detto che «la soluzione non può che essere politica e lavoreremo per convincere in tal senso tutti i nostri partner». Davvero poco per un Paese che ha le mani in pasta e negli ultimi dieci giorni ha reso noto di avere bombardato tre volte basi libiche dell’Isis.


UNA DICHIARAZIONE che sa di presa in giro, come quella francese di qualche giorno fa: «Siamo in totale sintonia con l’Italia per una soluzione politica», ha detto il ministro francese degli esteri Jean Yves Le Drian. Come se Trump non avesse sostenuto il generale Khalifa Haftar che viene ancora visto dalla Francia come l’uomo forte sui cui puntare per far fuori a Tripoli il governo di Al Sarraj e degli islamisti.


La Libia è diventata una sorta di Siria alle porte di casa. Il suo destino potrebbero deciderlo i russi, che hanno inviato i mercenari della Compagnia Wagner, insieme a francesi, egiziani, emiratini, con gli americani sbilanciati verso il generale Khalifa Haftar (cittadino Usa): è ancora lui, in mancanza di meglio, che le maggiori potenze occidentali e arabe, al di là delle stucchevoli dichiarazioni ufficiali, vorrebbero investire del ruolo di «gendarme» dell’ex colonia italiana.

Gli italiani in Libia non servono perché hanno un «peso» ma perché fanno da eventuale contrappeso alla presenza altrui: siamo l’accessorio di un’antica bilancia basculante dove altri distribuiscono sui piatti la vera potenza. Noi sulla bilancia pesiamo solo il parmigiano.


*Pubblicato su gentile concessione dell'Autore

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