Belt and Road e trappola del debito: qualche considerazione

Una delle principali accuse che gli Stati Uniti – ma in generale tutto l'Occidente – rivolgono alla Belt and Road Initiative è quella di essere una strategia di dominio mondiale che Pechino porta avanti utilizzando (ovviamente non solo!) l'arma del debito: attraverso prestiti a Paesi piccoli e vulnerabili, impossibilitati a restituirli, ottiene il controllo di asset strategici (porti in primis) e limita la sovranità politica dei Paesi stessi.


A questo proposito, al fine di analizzare la reale consistenza di questa accusa, riportiamo uno stralcio dal libro “La nuova via della seta. La Belt and Road Initiative e il ruolo dell'Italia in un mondo che cambia” di Diego Angelo Bertozzi, pubblicato a settembre dalla Diarkos e che sarà presentato a Roma il prossimo 13 novembre (Mondadori Store di via Tuscolana, ore 11.30).

Il 2018 è stato caratterizzato da forti critiche alla Belt and Road che hanno portato Pechino a rivedere alcune pratiche. Si può. dire che, nel complesso, Pechino sia in piena fase di apprendimento e adattamento. Lo Sri Lanka è sovente citato da esempio di come la Bri spinga in una “trappola del debito”39 i Paesi coinvolti e si riveli funzionale ad una strategia di dominio. Il controllo del porto cingalese di Hambantota, passato alla China Merchants Port Holdings a causa della impossibilità di restituire i prestiti, risponderebbe, quindi, ad una logica di espansione geopolitica e militare della Repubblica popolare cinese. Da qui le ulteriori accuse di saccheggio, intromissione politica e violazione della sovranità. Come quelle di John R. Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, per il quale la Cina starebbe facendo un uso strategico del debito per tenere diversi Stati prigionieri e succubi ai propri desideri e richieste.


Se quello dello Sri Lanka costituisce veramente il “paradigma” di tale ipotetica strategia, si possono allora nutrire legittimi dubbi sulla sua consistenza in termini assoluti. Perché la fetta più grande del debito di Colombo è, infatti, precedente all’aumento dei prestiti provenienti da Pechino. Una porzione significativa è legata a prestiti agevolati concessi da fonti finanziarie sia bilaterali che multilaterali, tra le quali la Cina è solo l’ultima arrivata. Il debito estero accumulato dal Paese è di circa 55 miliardi di dollari. I creditori cinesi detengono il 10% di questo totale, il Giappone il 12%, la Banca asiatica di sviluppo il 14% e la Banca Mondiale l’11%. Sulla scia di questo esempio, ci sono autori40 che sottolineano come manchino dati credibili sull’esposizione di diversi Paesi verso Pechino e altri creditori (Usa, Europa e Giappone), e che spesso le cifre sull’indebitamento seguono l’alternarsi delle maggioranze governative (pro o anti Cina); non basta, in sostanza, fare riferimento solo al rapporto debito/ Pil. Per quanto riguarda il Pakistan, costretto a chiedere un piano di salvataggio al Fmi (sarebbe il 13° a partire dal 1980!) e citato come altro esempio di “trappola del debito”, si evidenzia come il deficit commerciale con la Cina ammonti a 9,7 miliardi di dollari nell’esercizio 2018, pari al 26% del deficit totale del Pakistan e che i rimborsi del debito alla Cina ammontano a 300 milioni di dollari all’anno per i prossimi tre anni, ciò equivale solo a una piccola parte delle obbligazioni di debito che attualmente sono di 9 miliardi solo in questo anno fiscale.


Recenti analisi sulla “trappola del debito” hanno circoscritto ad alcuni specifici casi il problema e ridimensionato le responsabilità cinesi. Tra gli studiosi citiamo Deborah Brautigam (Johns Hopkins University), una vera autorità in tema di relazioni Cina-Africa. È lei a sottolineare come diversi accademici che hanno studiato le pratiche cinesi in dettaglio abbiano trovato “scarse prove di un modello che indica che le banche cinesi, agendo per volere del governo, stiano deliberatamente finanziando progetti in perdita per garantire vantaggi strategici per la Cina”.

Sono considerazioni che si fondano su quanto emerso dalle minuziose ricerche condotte dalla China-Africa Research Initiative (da lei diretto) che ha raccolto informazioni su oltre 1.000 prestiti cinesi in Africa tra il 2000 e il 2017, per un totale di oltre 143 miliardi di dollari. Tenendo presenti anche i dati di Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale, si è scoperto che nei prestiti “erano coinvolte una moltitudine di banche e obbligazionisti globali, in particolare Credit Suisse in Mozambico o il gigante minerario anglo-svizzero Glencore in Ciad”. In alcuni dei 17 paesi individuati dal FMI come vulnerabili, tra cui il Camerun e l’Etiopia, la Cina era il principale creditore, ma i creditori non cinesi detenevano ancora la maggior parte del debito. Solo a Gibuti, Repubblica del Congo e Zambia i prestiti cinesi hanno rappresentato la metà o più del debito pubblico del paese.


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