Coronavirus e la piaga della sanità lombarda



di Leo Essen*

La sanità lombarda è un sistema integrato di strutture pubbliche e private, nel quale le strutture pubbliche sono al servizio di quelle private.

Le porte di ingresso al sistema sono due, il medico di base (pubblico) e l’infrastruttura telematica di prenotazioni (App Salutile – pubblica). La ricetta rossa permette, con uno sconto sul prezzo finale, di prenotare visite in ogni struttura accreditata, pubblica e privata.


Il medico di base, in genere, non ha alcun problema a rilasciare una ricetta rossa per visite specialistiche ambulatoriali generiche o di diagnostica strumentale. Anzi, è indotto alla prescrizione da una sana ragionevolezza economica, la quale impone di fornire utenti a un apparato “industriale” (privato) che non può permettersi il lusso di azzerare il tasso di profittabilità (ROI).


Le sale di accettazione dei centri diagnostici sono allestite come catene di montaggio. Una schiera di receptionist, accoglie, registra, incassa, prepara, e, dopo anche un’ora o due di attesa, instrada la folla verso sgabuzzini, dove ogni paziente è accolto da tecnici ecografi o radiografi, oculisti, otorini, gastroenterologi, tutti assistiti da uno o due preparatori professionali, i quali fanno spogliare o stendere o accomodare il malato presso macchinari e apparecchiature Siemens, mentre lo specialista laureato briga con un dittafono, collegato ad un computer desktop, nell’intento di fissare in 5 minuti nel fascicolo sanitario elettronico un referto stereotipato.


Solo ai più anziani, tutta questa scienza e tecnologia, ammassata in capannoni situati nelle ex aree fordiste, ricorda Il medico della mutua di Alberto Sordi. Solo essi hanno la spiacevole sensazione di essere trattati come malati immaginari, come ipocondriaci; di essere trattati come numeri contabilizzati da una macchina che macina profitti, una macchina che li avvicina con quella spocchia e sufficienza che insinua nel paziente l’idea che lui (il malato) si sia inventato tutto, che sia lì perché non sa come svoltare la giornata.


Il mito dell’efficienza della sanità lombarda è costruito intorno al concetto di produttività e di valore aggiunto, ovvero alla differenza tra il valore in ingresso (input) e il valore in uscita (output).


Quand’anche si misurasse il prodotto in termini di unità fisiche (e non di valore) si troverebbe che il sistema lombardo è a più alto valore aggiunto di quello calabrese. Ma ciò non dimostra in modo incontrovertibile che la sanità lombarda sia migliore di quella calabrese, dimostra solo la sua maggiore redditività.


A tutto ciò si potrebbe obiettare che il paziente non è un numero, che ogni caso ha una storia a sé, e che il malato è una persona e non va trattato come una unità statistica in un sistema massificato di valorizzazione. Ma non è questo il punto.


Il punto è che il sistema sanitario è una tessera del sistema complessivo di benessere, e che l’avanzamento nella qualità della vita e nella sua durata sono un risultato diretto del sistema di protezione sociale complessivo. Sistema formato interamente dalle conquiste dei lavoratori nel corso del Novecento, e composto da: 1) diritto alla riduzione dell’orario e dei ritmi di lavoro; 2) diritto a luoghi di lavoro salubri e sicuri; 3) diritto ad una sana alimentazione; 4) diritto alla casa con bagno e acqua corrente e locali riscaldati e adeguati al numero degli occupanti; 5) diritto all’istruzione e alla conoscenza; 6) diritto alla pensione, eccetera.


Un sistema sanitario, svincolato dal sistema di protezione sociale complessivo, nel migliore dei casi può solo tamponare le falle, mettere qualche toppa, sistemare qualche osso rotto, recidere un cancro o un’appendice infetta – e bisogna ringraziare i dottori e gli infermieri del servizio sanitario pubblico, i quali, tagliando e cucendo, talvolta senza interruzione, si accollano il compito di ricevere quei pazienti che la macchina della sanità privata accetta solo fin tanto che si realizza un ritorno del capitale investito.


Quando si presenta un caso complesso, come quello del coronavirus, che mette in gioco strumenti di analisi statistica ed epidemiologica o di biopolitica – di controllo del corpo e delle popolazioni – i nodi vengono al pettine, e non è sufficiente puntare i riflettori sulla sanità (pubblica e privata), e dimenticare lo smantellamento della rete di protezione sociale, dimenticare che ci sono persone che lavorano e vivono in case sovraffollate, che si nutrono di junk food, che non si lavano con acqua calda, che non possono pagare il riscaldamento della casa, che non possono comprare medicine, che sono costrette sistematicamente a lavori straordinari, che dormono poco, che vedono nero, per sé e per i proprio figli.


Queste persone, questi lavoratori, siamo noi, e quando siamo circondati da un cordone sanitario fatto da altri lavoratori come noi, con gli occhi rossi per i doppi turni, come noi, non abbiamo solo la consapevolezze che in Lombardia la nuova sanità è stata un fallimento, ma che il sistema di protezione sociale, sponsorizzato in questi ultimi quaranta anni, è stato, nel complesso, un fallimento.


Se credete di riuscire ad arrestare il virus con le pistole e i fucili, mandate pure l’esercito, noi siamo qui.


* da Coku

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