«I can't breathe». George Floyd e i tanti altri negli Usa, in Palestina e in Italia



di Patrizia Cecconi

Dove finisce l’uomo comincia il soldato”, così scriveva tanti anni fa il poeta David. M. Turoldo. Di esempi ne abbiamo tanti, in Italia e nel mondo.
Purtroppo la divisa spesso uccide e chi la indossa, il più delle volte, non viene neanche chiamato assassino. E non parlo di situazioni belliche perché lì c’è la tragedia o l’infamia della guerra a modificare ogni cosa. Parlo di normali divise delle cosiddette forze dell’ordine. In Italia, in Francia, negli Usa, in Egitto, in Turchia, ovunque. Senza troppa differenza, se non numerica, tra paesi cosiddetti democratici e paesi governati da regimi autoritari.
Chi scrive ha esperienza personale di alcuni luoghi in cui le divise commettono violenze e soprusi costanti e impuniti. Personalmente infatti, nella Striscia di Gaza, ho visto divise israeliane ferire e uccidere palestinesi indifesi, spesso bambini, e ho saputo che i proprietari delle divise, generalmente giovani maschi e femmine di razza umana poco più che ventenni, venivano premiati e definiti eroi per questo.
Alle porte di Gerusalemme e in diverse zone della Cisgiordania ho visto divise arroganti e sprezzanti umiliare frequentemente, e diverse volte picchiare e arrestare, palestinesi di qualunque età.


Sui media e sui canali web ho visto più volte poliziotti statunitensi scagliarsi su cittadini inermi, meglio se di pelle scura – per un razzista c’è sicuramente più gusto! – e picchiarli o ucciderli per puro sadismo coperto dalla divisa. L’ultimo caso è quello di George Floyd e il video che ha ripreso la scena è terribilmente simile ad un altro video: stesso ginocchio sul collo, ma diversi soldati, diverso paese, diversa vittima. Erano soldati israeliani. E mi chiedo quanti altri, che non hanno avuto riprese, negli Usa, in Palestina, in Italia, in Francia, nel mondo hanno subito la stessa sorte!


Dove finisce l’uomo inizia il soldato!
Pagheranno mai, questi assassini? In Italia, si sa, non ci facciamo mancare nulla e ancora mi torna nei sogni la foto di un ragazzo che aveva l’età di mio figlio. Poteva essere mio figlio, forse per questo torna nei miei sogni o forse perché la sua coraggiosissima madre porta il mio stesso nome. Ammazzato da balorde divise che lo avevano fermato in strada. Ucciso per compressione toracica e impedimento a respirare. Federico, 18 anni, morto così. E come lui tanti altri, e anni e anni a chiedere giustizia e solo qualche volta riuscire ad averla.


“Non posso respirare!” Già sentita diverse volte quest’invocazione. Sentita solo perché qualcuno ha potuto vedere e ha avuto il coraggio di filmare e denunciare.
Qualche giorno fa, a Minneapolis, è toccato a George Floyd.
Quale colpa aveva George? La sua colpa era tutta nel colore della pelle. Per divise che ricordano i cappucci del Ku Klux Klan questa è una colpa. Anche Eric Garner, qualche anno fa, sempre negli Usa, a New York, aveva sussurrato con il poco ossigeno che gli restava nei polmoni “non posso respirare”. Anche lui aveva incontrato quel tipo di divise che al loro interno omaggiano il KKK. L’assassino di Eric aveva un cognome italiano, uno dei tanti italiani dimentichi di un passato neanche troppo lontano. Non risulta che sia stato condannato per omicidio. In fondo aveva “solo” ammazzato un negro!
Esattamente come succede per tutti gli uomini, le donne, i ragazzi, le ragazze e a volte i bambini ammazzati dagli israeliani. Solitamente non c’è motivo di essere incriminati, in fondo hanno “solo” ammazzato dei palestinesi!


Forse per questa similitudine il gruppo “Giovani palestinesi in Italia” ha dedicato a George un piccolo, toccante testo pubblicato su FB. Un testo di vicinanza umana rivolto sì a George ma, insieme, a tutte le vittime inermi uccise in qualche parte della Terra perché in qualche modo diverse dai loro assassini. Per questo lo pubblichiamo, perché crediamo che la violenza gratuita subita da qualunque essere umano, in qualunque angolo del mondo, in situazione di oppressione, riguardi chiunque creda davvero che i diritti umani, ovvero il Diritto universale, debba valere per tutti altrimenti è solo carta da incorniciare come inutile orpello.


George – si legge nella loro pagina FB - ti scriviamo perché sappiamo. Sappiamo cosa significa morire solo perché si porta un certo nome, sappiamo cosa significa morire per il proprio colore di pelle, per la semplice "colpa" di essere diversi. Immobilizzato su quell'asfalto, in quel momento ti sentivi solo. Ma in realtà hai esalato il tuo ultimo respiro di fronte a tutto il mondo. Ogni angolo della terra sta piangendo per te. A tutti noi è mancato il respiro assieme a te, tutti noi abbiamo sentito la pressione di quel ginocchio razzista sul collo e abbiamo chiamato "mamma, mamma!" Come te, con te. Abbiamo sanguinato con te. Il cuore ci batteva forte, come te. Abbiamo sperato che non fosse vero, che tutto potesse finire da un momento all'altro, come te. E abbiamo sussurrato, con voce flebile: "Non riesco a respirare", "Non riesco a respirare".
Ora questa frase è il nostro grido di giustizia per te.
Come sei morto George!
È perché sei nero, George.
È perché sei povero, George.
È perché eri solo, indifeso, George.
È perché eri così vivo, George.
Ti hanno ucciso, George.
E oggi noi, noi ci sentiamo soffocare senza te, George.
Riposa in pace.


Giovani palestinesi d'Italia (https://www.facebook.com/giovanipalestinesi.italia/?ref=search&__tn__=%2Cd%2CP-R&eid=ARDhOusnMnJvk5Lxc45yd_cgZMNMfFgiJ3SPknQnsxVNWuhK1wIKL_3-xet3-i6EU-g3rRUCzEUF7j-F)

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