Il centenario del Partito Comunista Italiano

di Gianpasquale Santomassimo

Il centenario del Pci è un evento destinato a sollecitare non solo ricordi e nostalgie, ma anche riflessioni e bilanci, interrogativi e inevitabili polemiche.

E’ del tutto naturale che su di esso si cimentino giornalisti e opinionisti, di diverso spessore. Non si può pretendere che sia una ricorrenza sulla quale possano esprimersi esclusivamente gli appartenenti a quella tradizione, che nel tempo si è fatta peraltro in gran parte mitica e immaginaria, quanto più quella esperienza si allontana nel tempo.

Diverso è semmai il contegno che è giusto richiedere ai politici, dai quali si auspicano sobrietà e serietà: che non si ravvisano nell’iniziativa promessa (o minacciata) da Renzi, che non si vede per quale ragione dovrebbe “celebrare” (con il conforto di un pendaglio da forca britannico) una storia che con ogni evidenza ignora e di cui non fa parte.

In tutte queste iniziative, politiche o giornalistiche, possiamo però individuare un abbaglio comune e ricorrente, ormai talmente diffuso da apparire abitudinario, il ritenere cioè che quella scissione abbia sancito la separazione tra comunismo e “riformismo”.

Cominciamo subito col dire che all’epoca non esisteva il “riformismo” generico, quello che nella neolingua successiva al 1989 designa in realtà la restaurazione sociale perseguita dall’establishment dominante.

Si vuole intendere probabilmente il socialismo riformista, che per la verità a Livorno non è affatto uno dei due corni del dilemma. In quel partito l’ala riformista era largamente minoritaria e molto variegata al suo interno. Matteotti non è Turati, malgrado la venerazione e la riconoscenza che professa, e Turati non è D’Aragona o Baldesi. Tutti assieme sono molto distanti dal futuro liberalsocialismo, che nel decennio successivo procederà lentamente a colonizzare quella tradizione, fino alla sua estinzione.

Nel Congresso di Livorno si produce la scissione tra comunisti e socialisti massimalisti, che restano in maggioranza nel partito. Entrambe le posizioni sono entusiaste per la rivoluzione bolscevica, intendono “fare come in Russia” (pur con idee molto confuse su come procedere), intendono aderire alla nuova Internazionale Comunista. Si differenziano solo sulla gradazione dell’accoglimento delle “condizioni” dell’Internazionale, e in particolare sull’espulsione immediata dei riformisti, che avverrà l’anno successivo, alla vigilia della marcia su Roma (tanto per non farsi mancare niente). C’è la percezione di un eccesso di “vincolo esterno” (diremmo oggi) da parte del grosso del partito, e su cui converrà a breve anche lo stesso leader scissionista, Bordiga, che avrà rapporti molto tesi con l’Internazionale.

Di fatto si realizza una “scissione di minoranza”, a differenza di quanto era avvenuto in Francia nel congresso di Tours, e in quanto tale verrà ben presto giudicata una parziale sconfitta.

Quando parliamo di Livorno più che della nascita di una tradizione parliamo di una falsa partenza. Nell’arco di pochi anni non resterà più nulla dei dibattiti e delle aspettative suscitate a Livorno, travolti da una realtà che era già percepibile nel ’21 e che vanifica quel discorrere sterile di una rivoluzione ormai sconfitta.

Il principio di realtà emerge a Livorno solo grazie a Giacomo Matteotti, che abbandona i lavori per accorrere a Ferrara, messa sotto assedio dalle squadre di Balbo che la stanno espugnando. Si allontana munito di una scorta armata fornita tanto da socialisti quanto da comunisti, prefigurazione di una convergenza obbligata ancora molto lontana nel tempo.

La tradizione del comunismo italiano prenderà forma tra il ’25 e il ’26, nelle forme classiche di una riflessione sulla sconfitta da cui era nato tutto il pensiero rivoluzionario del secolo precedente e attraverso l’analisi realistica della società italiana e della sua storia.
Saranno le Tesi di Lione, scritte da Palmiro Togliatti in collaborazione con Antonio Gramsci e sotto le stimolo delle sue riflessioni, a segnare il vero inizio di un’esperienza destinata a segnare di sé la storia italiana nei 60 anni che seguiranno.”

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