"Liberatevi delle vostre Costituzioni antifasciste". JP Morgan alla periferia della zona euro

A volte, scrive Leigh Phillips sul suo blog su EuObserver, mi meraviglio di quanto asettico, persino blando, possa essere il linguaggio dei documenti più scellerati.
La settimana scorsa la squadra delle ricerche economiche europee della JP Morgan, il gigante finanziario globale, ha diffuso un documento di 16 pagine sullo stato delle cose per quanto riguarda gli aggiustamenti dell’area euro. Il documento conteneva un conteggio di quale lavoro è stato fatto sinora e di quanto lavoro resti ancora da fare in termini di riduzione della leva sovrana, riforme strutturali (riduzione del costo del lavoro, facilitazione del licenziamento dei lavoratori, privatizzazioni, deregolamentazione, liberalizzazione) e riforme delle politiche nazionali.
Gli autori affermano che l’eurozona è circa a metà strada nel suo periodo di aggiustamento e dunque è probabile che l’austerità sarà “per un periodo molto esteso” una caratteristica del paesaggio.
L’analisi dei banchieri ha probabilmente ricevuto scarsa attenzione perché è un pò una notizia del tipo ‘Una grande banca prevede molti altri anni di austerità’. Nessuno si aspettava che l’austerità potesse sparire a breve nonostante l’ammorbidimento offerto ai paesi del programma UE-FMI riguardo agli impegni di riduzione del debito in cambio di un’accelerazione dell’aggiustamento strutturale.
L’assenza di copertura mediatica è però vergognosa visto che si tratta del primo documento pubblico nel quale gli attori dicono senza peli sulla lingua che il problema non è semplicemente una questione di rigore fiscale e di promozione della competitività, ma che c’è anche un eccesso di democrazia che va ridimensionato in alcuni paesi europei.
“Nei primi tempi della crisi si pensava che questi problemi nazionali ereditati fossero in larga misura economici: un eccesso di leva dei debiti sovrani, bancari e delle famiglie, disallineamenti dei cambi reali interni e rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che ci sono anche problemi nazionali ereditati di natura politica. Le costituzioni e le soluzioni politiche nella periferia meridionale, poste in essere dopo la caduta del fascismo, hanno una quantità di caratteristiche che appaiono inadatte a un’ulteriore integrazione nella regione. Quando i politici e decisori tedeschi parlano di un processo di aggiustamento decennale hanno probabilmente in mente la necessità di riforme sia economiche sia politiche”. [Grassetto aggiunto].
Sì, commenta Phillips, avete letto bene. E’ in asciutto bancherese ma gli autori hanno fondamentalmente affermato che le leggi e le costituzioni dell’Europa meridionale sono un po' troppo di sinistra, risultato dell’essere state scritte da antifascisti. Questi “problemi politici profondamente radicati nella periferia”, scrivono gli autori David Mackie, Malcom Barr e soci, “a nostro parere hanno necessità di un cambiamento se l’Unione Monetaria Europea deve funzionare correttamente nel lungo termine”.
Gli autori entrano in maggiori dettagli in una sezione che descrive questo “percorso di riforma politica nazionale”:
“I sistemi politici della periferia furono creati dopo una dittatura e furono definiti da quell’esperienza. Le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista che riflette la forza politica acquisita dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.
Il documento contiene alcune imprecisioni storiche, fa notare Phillips. L’Italia, per esempio, non è mai passata per un processo simile alla denazificazione tedesca e in Spagna il re democratizzatore, Juan Carlos, svolse un ruolo fondamentale nella transizione. Solo in Grecia e in Portogallo ci furono insurrezioni socialiste popolari che determinarono la caduta dei regimi o vi contribuirono: la Rivolta del Politecnico di Atene ebbe un ruolo chiave nel Metapolitefsi, o “cambiamento di politica” (anche se molto, molto di più che la repressione della protesta studentesca ebbe una parte, tra cui un fallito colpo di stato e l’invasione turca di Cipro), e in Portogallo una vera e propria ribellione di sinistra, la Revolução dos Cravos, o Rivoluzione dei Garofani, abbatté il regime dell’Estado Novo. Anche se è vero, nel caso degli ultimi tre paesi, che la loro tardiva costruzione di stati sociali negli anni ’70 e ’80 fu largamente attuata da forze socialdemocratiche, gli architetti dello stato post-bellico italiano furono i democristiani, che dominarono il governo per 50 anni.
“I sistemi politici della periferia mostrano solitamente diverse delle caratteristiche seguenti: governi deboli; stati centrali esecutivi deboli rispetto alle regioni; protezione costituzionale dei diritti del lavoro; sistemi di costruzione del consenso che incoraggiano il clientelismo politico e il diritto di protestare se sono operati cambiamenti non graditi allo status quo politico. I limiti di questa eredità politica sono stati rivelati dalla crisi. I paesi della periferia sono riusciti solo parzialmente a produrre programmi di riforme fiscali ed economiche, con paesi limitati dalle costituzioni (Portogallo), regioni forti (Spagna) e l’ascesa di partiti populisti (Italia e Grecia)”.
Phillips si sofferma su questo paragrafo e spiega “Governi deboli implicano parlamenti forti. Dovrebbe essere una cosa buona, no? Ricordiamo che è il parlamento a essere sovrano. Il governo in una democrazia si presume sia un organismo che si limita ad attuare le decisioni del parlamento. C’è un motivo per cui la democrazia liberale ha scelto i parlamenti e non un sistema di monarchi eletti.”
JP Morgan, e presumibilmente le figure importanti della UE per le quali sta facendo da ventriloquo, sono finalmente onesti: vogliono farla finita con le protezioni costituzionali dei diritti dei lavoratori e del diritto di manifestare. E deve esserci un qualche modo per impedire che il popolo elegga i partiti sbagliati.
Fortunatamente, però, segnalano gli autori, “C’è una crescente presa d’atto della portata di questo problema, sia al centro sia nella periferia. Il cambiamento comincia ad aver luogo”
In particolare, evidenziano come la Spagna abbia cominciato “ad affrontare alcune delle contraddizioni del post-Franco” e a tenere a freno le regioni.
Ma a parte questo, purtroppo, il processo di de-democratizzazione (loro lo chiamano “il processo di riforma politica”) è “a malapena cominciato”.

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