Sul concetto di confine nell'epoca dei sacerdoti della globalizzazione: riflessioni con Diego Fusaro.


di Mariangela Cirrincione

Sbarchi, epidemie, terrorismo. Sbarchi, epidemie, terrorismo, ma lo Stivale non ha paura. L'Italia accoglie. L'Italia accoglie, raccontandoci la favola – del tutto artificiosa – che solo l'accoglienza è possibile. Guai a metterla in discussione. Crediamo, per ipotesi, che tale certezza sia una sorta di meccanismo auto-assolutorio di questa nostra collettività, forgiata di ricerca di buone prassi e virtuosismi politically correct e bene nutrita di epiche civili, che però – di tanto in tanto, in taluni ambiti – nascono e muoiono col giorno. Canovacci che, nonostante sia la narrazione fatta di pan-Europa e globalismo, di delega totale di governo e cessioni felici di territori e risorse, bugiardamente (e ipocritamente), sembrano negare quel desiderio di sconfinamento insito nell'uomo occidentale, il nòmos (la legge) della terra – per dirla con Carl Smith – che è occupazione, dominio, colonizzazione.
«Ci raccontano i sacerdoti della globalizzazione che il confine è finito. Non è vero. Esso è una categoria ancora viva» (VINCENTI), benché la 'mitologia' – consentiteci il termine – la mitologia civile risulti farcita della retorica dell'accoglienza “senza se e senza ma”. Migranti-risorsa. Migranti-necessità. L'accoglienza – ora – è cosa buona. L'accoglienza è cosa buona se è apertura all'uomo. La solidarietà sociale tuttavia non può diventare, né deve, la scorciatoia per suggellare lo sposalizio tra Stati e globalismo, Stati e capitalismo più radicali. L'accoglienza non può essere privata della sua cifra valoriale, che bene viene descritta in quasi tutte le religioni, diventando, e almeno così come tale fenomeno è indossato dall'italiano, esterofilia dissennata. Esterofilia dissennata che si compie nel costruito trionfo di un'alterità anch'essa categoria, astrattezza, dimentica delle diversità, dei sentimenti e delle aspirazioni reali dei popoli. Un neo-provincialismo forsennato e dannoso.
«Il provincialismo – spiega Diego Fusaro – si manifesta in due modi fondamentali, opposti eppure complementari. Il provincialismo particolaristico di chi non sa vedere al di là del proprio centro di esistenza vivendo il particolare senza condizione con l'universale, e il provincialismo di chi vive invece nell'universale senza avere alcun contatto del particolare. Vedasi l'esterofilia compulsiva di chi parla a tutti i costi inglese, disprezzando la cultura nazionale per seguire la cultura british...». Non occorre certo fare il verso a Salvini, o aggiungersi ai cori di biasimo rivolti alle sterzate da “galateo sociale” auspicate da Boldrini e compagni, sciorinanti slogan come “i migranti sono utili al Paese” (mentre gli italiani stanno perdendo utili e utilità!) per dedurne che – alla fine della partita – gli italiani questa terra non la sentono, non fino in fondo. L'identità è liquida, diluita, debole.
«Questo aspetto tipico degli italiani che sono o provinciali nel primo senso o nel secondo senso – precisa il filosofo – l'aveva già capito bene Gramsci ne “I quaderni dal carcere” quando diceva che il male storico degli italiani era l'essere cosmopoliti senza mai essere stati nazionali, perché il vero rapporto tra particolare ed universale è un rapporto che mette in relazione queste due anime, ed è il punto su cui bisogna lavorare». Cosmopoliti e non nazionali, mai sentinelle della sovranità statale, ceduta senza colpo ferire, al triumvirato della modernità, tutelante i superiori interessi del capitale. «Rimuovere i confini per abbattere ogni barriera economica e impadronirsi del piano simbolico. Occorre oculatamente evitare i due poli opposti e segretamente complementari: per un verso della 'pappa del cuore' (Hegel) dell'elogio incondizionato e aprioristico dell'immigrazione in quanto tale, e il polo della xenofobia ebete che vede nell'immigrazione e negli immigrati un pericolo in quanto tale».
Sbarchi, epidemie, terrorismo. Non è un caso che #labuonascuola renziana, digerito, ma non del tutto, il tempo 'liberale' delle tre “i” di inglese, internet e impresa, (impostazione, questa, che conferma in una qualche misura la tesi dell'esterofilia patologica sopracitata) abbia improvvisamente scoperto prioritario lo studio della geografia. C'è bisogno di geografia perché occorre interpretare quest'epoca. Occorre comprendere la cronaca internazionale, abbisogna “parlare” col diverso. Abbisognerebbe, piuttosto. Integrare – ipocrisie a parte – non è sinonimo di subire.
Sbarchi, epidemie, terrorismo. Tre parole e quello che appare un unico comune denominatore. L'artificio. E qui l'affondo del giovane ricercatore, allievo indipendente di Marx ed Hegel.
«Io credo che l'immigrazione oggi sia un fenomeno artatamente gestito dalle politiche neoliberiste e dalla logica di sviluppo di un capitalismo divenuto assoluto e totalitario, difeso strutturalmente dalle sinistre. Esso mira continuamente a promuovere l'immigrazione legittimandola attraverso la 'retorica del migrante', la retorica dell'assenza di documenti e del nomadismo senza frontiere, la retorica che senza conoscere i fenomeni li elogia».
C'è improvviso bisogno di geografia, dunque, forse perché c'è un bisogno di staccionate, di confini?
«Il confine – conclude – non è necessariamente qualcosa di malvagio. È qualcosa che protegge la comunità rispetto alla possibile aggressione da parte della potenza della finanza. Il confine diventa negativo quando chiude in maniera ermetica e impedisce il contatto tra i popoli e le civiltà ma se serve a e regolare i loro rapporti e a preservare i diritti della comunità diventa qualcosa di positivo. Oggi, la globalizzazione finanziaria mira a rimuovere ogni confine e a produrre lo spazio anonimo, neutro dello scorrimento illimitato delle merce su scala globale».
L'Italia ha tradito i propri confini ontologici, i confini dell'essere, quelli che fanno dell'Italia una Nazione, e non la peggiore provincia di Bruxelles. E, cari italiani, non c'è auto-assoluzione che tenga.

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