Non solo non si dimette ma Poletti continua ad insultare milioni di lavoratori


Giuliano Poletti, l'uomo del Jobs Act, la riforma del lavoro che annulla anni di lotte sociali e conquiste di civiltà del nostro paese, continua a insultare l'intelligenza dei lavoratori. Si esprime in questi termini verso i sindacati: "Dialogo, sapendo che non ci sarà nessuna trattativa”. In altre epoche o in altri paesi si chiamerebbero Diktat. Pensate se a dirlo fosse stato Putin, Maduro o Rohani i titoli di Repubblica e Corriere. E invece silenzio nei media di regime. E questo nonostante il fatto che Poletti, come illustra Paolo Becchi oggi sul Fatto, sia l'uomo ritratto in una cena (a sua insaputa) con Salvatore Buzzi, la mente imprenditoriale di Mafia Capitale e braccio destro dell’ex Nar Massimo Carminati, Luciano Casamonica e altri personaggi chiave del cosiddetto “mondo di mezzo”. Ed il fatto che siano emersi nuovi retroscena che hanno portato alla luce come l’elemento di spicco di Mafia Capitale, Buzzi, avesse ottenuto un appalto da tre milioni di euro dal Ministero del Lavoro per il servizio delle pulizie.

Dal post del Fatto di Paolo Becchi

A questo punto Poletti si convincerà a fare quello che ogni persona con un minimo di etica comportamentale e senso di responsabilità farebbe, vale a dire dimettersi? Neanche per sogno. Dopo aver insultato lavoratori e sindacati con quelle dichiarazioni citate all’inizio, Poletti afferma ai giornali (perché l’Aula parlamentare non la contempla neanche) che le gare di affidamento “esulano dall’attività di indirizzo politico in capo al ministro”. Quindi non solo foto a sua insaputa, ma anche bando a sua insaputa. Scajola era un dilettante al confronto.

Con i media di regime (Corriere e Repubblica in particolare) che stanno facendo di tutto per insabbiare la questione, la domanda è cosa si possa fare a livello politico. Dopo aver snobbato la richiesta di chiarimenti avanzata dal Movimento cinque Stelle, l’ultima via che resta all’opposizione è quella di presentare una mozione di sfiducia individuale. Si tratta di un istituto non previsto direttamente in Costituzione ma il caso Mancuso del 19 ottobre del 1995 – l’unico caso di un ministro sfiduciato nel nostro Paese – dimostra come si sia affermato ormai nella prassi. La prima mozione di sfiducia risale al 1984, contro l’allora ministro degli Esteri Andreotti, cui fecero seguito molte altre, fino ai recenti casi di Lunardi, Fornero, Padoa Schioppa e Bondi. A dare ulteriore legittimità all’istituto, nel 1986 venne fatta una modifica all’articolo 115 del Regolamento della Camera, in cui si si precisava che la disciplina di sfiducia al governo “si applica alle mozioni con le quali si richiedono le dimissioni di un ministro”.
E’ l’ultima via da percorrere per il Movimento cinque Stelle per mettere spalle al muro una maggioranza che ha già avuto il coraggio di salvare Alfano per l’incredibile caso Shalabayeva, ma che deve ora essere chiamata a giudicare se, viste le circostanze, l’attuale ministro del Lavoro può continuare ad esercitare una professione, dalle cui decisioni pendono le sorti di milioni di italiani. Un voto, quindi, che potrebbe portare alla sfiducia di Poletti o annullare d’un colpotutta la retorica vuota fatta finora da Renzi dopo i casi di Expo, Mose e Mafia Capitale.

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