Carla Filosa - I “Concilianti”


di Carla Filosa

A chi sarà stato in Piazza dei Partigiani la mattina del 25 aprile sarà stato offerto un volantino con su scritto “Riconciliazione”. E’ diventato di moda, nel dibattito televisivo, ma anche altrove, porre la necessità di una riconciliazione nazionale, come avvenuto in Germania. Dal dopoguerra a oggi, in Italia ciò non è avvenuto come esito della guerra civile, o come si preferisca chiamare l’intervento della Resistenza nella sconfitta del nazi-fascismo. I giovani volantinanti in questione hanno suscitato tenerezza, sebbene con un po’ di disappunto per la loro fresca ingenuità, mentre sul contenuto del volantino c’è di che argomentare.

Se la riconciliazione venisse proposta con le persone che furono protagoniste 79 anni fa dello scontro bellico, ben pochi anziani troveremmo ancora in grado di condividere la proposta di una stretta di mano, che nell’arco di tutta la loro vita è mancata, o non è mai stata una priorità, un desiderio, un bisogno reale vissuto da una società civile, condotta a scelte politiche per lo più insabbiate o comunque obbligate a negare verità scomode. Gli amministratori e i funzionari del periodo fascista furono in molti casi reintegrati nei loro posti, o amnistiati.

Con i morti, sopraggiungerebbe poi una valutazione storica, necessariamente priva di interlocuzione, guidata da criteri quanto più possibile oggettivi, legata a circostanze, eventi e condizioni umane irripetibili, che non darebbero adito a “conciliazioni” rese ineseguibili dal mutamento incommensurabile e irreversibile del tempo trascorso.

La conciliazione ipotizzabile è dunque solo nel presente, con i coevi, ma qui si pone il problema centrale. Rispetto a cosa dovrebbe avvenire una conciliazione e in funzione di che, a favore di chi? Se il focus è l’essere o meno fascisti, prima di ogni dichiarazione di maniera, di appartenenza od anche di ideale sposato, bisogna definire cosa sia stato e soprattutto sia ancor oggi il fascismo, nella misura in cui se ne riconosce l’esistenza e pertanto la necessità di tenerne conto, e in che modo. Secondo una formazione culturale in cui si legge la storia per enuclearne criteri, categorie, leggi di mutamento, concetti che danno vita alla differenziazione di epoche, modi di produzione, classi sociali, culture, mentalità, ecc., gli individui appaiono solo come agenti umani, anche inconsapevoli, soggetti a forze sociali complesse che ne trainano movimenti e scelte.

Per completezza di ciò che si cerca di chiarire, si segnala un testo di Luciano Canfora, ed. Dedalo, 2024, “Il fascismo non è mai morto”, in cui si può trovare un’analisi dettagliata dei suoi tempi di formazione, compresi quelli dell’antifascismo nel ’20 – ’21, prima cioè del suo costituirsi come governo nazionale. Solo per citare alcuni punti condivisi, vi si trova che la cronaca ha accelerato il consolidamento in Italia delle radici nel Msi, che il fascismo non è finito nel ‘45, nel senso che non ne basta la caduta a segnalarne la fine. A conferma di ciò, e in un’ottica internazionale, nel ‘60 fu realizzato il governo Tambroni, nel ‘67 in Grecia fu instaurato il governo dei colonnelli, in Cile il golpe nel ’73, in Argentina la dittatura di Videla, la formazione di neofascisti nella Germania federale, ecc. Analogamente al giacobinismo, non finito con la testa ghigliottinata di Robespierre, i concetti politici hanno 2 vite, la seconda concerne la valutazione di valori profondi. Se è vero che il fascismo fu inventato in Italia, il suo concetto è stato ampiamente dilatato nello spazio e nel tempo fino ad oggi. L’ultima fase relativa alla Repubblica di Salò, avrebbe dovuto poi scalzare la rivoluzione del ‘17 in Russia, mediante l’accentuazione del nazionalismo, del razzismo esportato anche negli Usa nel suprematismo bianco del Kkk. Infine, l’ambiguità ideologica che lo ha caratterizzato ha falsificato la restaurazione per rivoluzione, movimento di popolo invece di collusione con la piccola borghesia, nell’opposizione gerarchica, anti-egualitaria e anti-liberale a cancellazione delle idee propugnate dalla Rivoluzione Francese.

In tal senso allora, il fascismo va analizzato non solo nella sua complessiva dimensione storica, ma soprattutto nella sua funzione di movimento e regime di classe. Governo cioè di un’organizzazione statale di coesione e consolidamento imperialistico del capitale finanziario monopolistico delle multinazionali, formatesi a livello mondiale. Fascismo è allora, culla l’Italia, un modello di regime autoritario funzionale allo schiacciamento del lavoro (abbassamento salariale, eliminazione dei sindacati nella formazione del sindacato unico corporativo tra imprenditori e lavoratori, violenze a danno di questi ultimi, connivente la polizia, eliminazione fisica o carcerazione di intellettuali dissidenti e oppositori politici, ecc.), per la sicurezza dei profitti colpiti dalla crisi economica di sovrapproduzione, irrisolta sin dalla I° Guerra Mondiale. Questo modello fu subito esaltato negli Usa, usato nel New Deal da Roosevelt, poi in Germania da Hitler, mentre negli altri paesi europei e non (Giappone), incluse le cosiddette “democrazie occidentali”, in cui si doveva rafforzare l’esecutivo in ottemperanza alle esigenze egemoniche dei capitali più forti, in competizione per la rapina, allora coloniale, delle materie prime.

Non potendo essere eliminato il conflitto reale capitale/lavoro, questo poteva almeno essere dissimulato a vantaggio di un altro conflitto - quello che porterà alla II° Guerra Mondiale – altrettanto ineliminabile, tra capitali competitivi a livello internazionale. Gli stati moderni - nell’analisi del 1917 da parte di Lenin che qui si riporta - svolgono la funzione di “assoggettamento alla volontà altrui”, “apparato di costrizione, di violenza secondo il livello tecnico di ogni epoca”, “mutamento delle forme del dominio di classe”, “giustificazione all’esistenza dello sfruttamento del capitalismo”.

Già Engels (1894) aveva messo in guardia sulla mistificazione di un concetto di stato quale “organo della conciliazione delle classi”, invece di essere quello che mediava gli interessi interno alla classe borghese, ne costituiva l’ordine dominante e oppressivo in quanto forma di legalizzazione; e ancora, quello che sembrava al di sopra della società, super partes, e, nella forma democratica, “il miglior involucro possibile per il capitalismo”. L’inconciliabilità degli opposti interessi entro lo stato del capitale - “comitato d’affari” lo definirà Marx – condurrà a un primo passo nella “conquista della democrazia” per il proletariato e la maggioranza della popolazione, tagliata fuori dalla politica e dalla società nell’impoverimento progressivo. Ciò che successivamente la democrazia dovrebbe gradualmente e spontaneamente consentire, o almeno favorire, è un percorso di libertà dallo sfruttamento, ossia da un lavoro erogato e non pagato a formare i profitti che si avvalgono del dominio per la riproducibilità del sistema di capitale.

La disuguaglianza e pertanto l’ingiustizia sociale sono, non solo il presupposto di questo modo di produzione, ma la permanenza del diritto borghese alla diseguaglianza, riverberato nei cosiddetti “diritti” sociali o civili. La finzione massima diventa così il “diritto al lavoro” – invocato ancor oggi nonostante la sua inconsistenza rivendicativa e la sua irrisione nell’ironico scritto di P. Lafargue “Il diritto all’ozio” (1883). Non si ha mai chiaro che il lavoro, infatti, o meglio l’occupazione, si ottiene solo se si è produttivi, ovvero nelle condizioni di creare plusvalore, altrimenti si ingrossano le file di una sovrappopolazione stagnante o da mandare al macero.

Il non-senso del chiedere lavoro da parte di chi ne dipende, si concretizza nell’illusione di una parità – formalmente assicurata e sbandierata – ma sostanzialmente negata, irreale, tra lavoratori e capitalisti. L’unica libertà reale, in regimi autoritari o sedicenti democratici, è quella del capitale che dirige la produzione o la rapina di plusvalore nella speculazione e nella acquisita spartizione del mondo.

Il fascismo si è inoltre presentato come «terza via» tra democrazia e reazione, sul modello bonapartista, che in realtà altro non è che la stessa «seconda via» (la reazione) in forme moderne e pseudo-rivoluzionarie. A sua volta il modello originario è stato il «cesarismo» di sicura fascinazione per l’incultura procurata nelle masse. Per quanto riguarda poi il suffragio universale maschile - che fu ottenuto col sistema proporzionale in Italia solo dopo la guerra, per le elezioni del 1919, senza le limitazioni della legge giolittiana e a favore di socialisti e popolari – fu prontamente abrogato dal governo Mussolini mediante la suddetta legge Acerbo del ’23, in vista delle elezioni del 1924.

Non casualmente, questa legge fu usata a modello per la cosiddetta “legge truffa”, riproposta ma sventata nel 31 marzo 1953, durante il governo De Gasperi. A 20 anni di distanza, a fascismo storico “superato”, il meccanismo della legge elettorale (introduzione di un premio di maggioranza che avrebbe assegnato il 65% dei seggi della Camera a chi avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi) si ripresentava come arbitrio istituzionale della minoranza governativa per escludere la maggioranza del paese dalla partecipazione al potere. Ciò che conta sarà il suffragio dei mercati, non quello degli elettori.

Altro aspetto da non sottovalutare, l’origine del fascismo va ricercata nella forma economica della crisi strutturale del capitale ormai imperialistico, che ha trovato la sua soluzione definitiva nella guerra del 1914. All’Italia viene imposto l’entrata in guerra l’anno successivo mediante la fortunata formula del “colpo di stato” monarchico, che di fatto esautora l’attività parlamentare soprattutto in merito all’“affare” guerra. L’Europa sperimenta così lo sterminio delle popolazioni trascinate nel conflitto per la “ripresa” del capitale nell’industria bellica, e la ridefinizione egemonica mondiale degli Stati Uniti d’America sul declino dell’Impero britannico. Sul piano politico si affaccia la trasformazione in chiave autoritaria di diversi stati (in Germania la dittatura del generale Ludendorff), che si avvantaggiano della mancanza di controlli da parte dei parlamenti e in particolare dell’arresto dell’avanzata socialista. Francia, Germania, Spagna, Austria, Ungheria hanno fatto cadere i regimi parlamentari e in Italia Mussolini viene chiamato al governo da un re pago di sostituire il popolo con un populismo nazionale.

Per concludere, questo breve schizzo di quello che fu il fascismo, questo mostra la sua natura coerentemente saldata al destino delle oscillazioni delle fasi del modo di produzione capitalistico, la cui aggressività, criminalità o forma antisociale è direttamente proporzionale alla sua necessità di sopravvivere e riprodursi. In tale ottica nessuna conciliazione è pensabile tra esseri umani e la materialità immateriale di un meccanismo economico-politico. E’ invece assolutamente plausibile, da parte del potere, l’obiettivo propagandistico di obliterare il conflitto reale, oggettivo, al fine di distruggere capitali altrui e forza-lavoro in eccesso attraverso guerre ormai di “basso profilo”, “bassa intensità”, “per interposta persona”, e così via depistando, per giungere all’annientamento soggettivo della coscienza del relativo, consustanziale conflitto sociale. Se il conflitto non viene agito, si crede, non esiste. L’ideologia dell’armonizzazione, della pacificazione sociale è sempre stato il refrain di un potere che, su modello delle holding economiche internazionali, gestisce le filiere dipendenti di partiti, sindacati, associazioni, ong, ecc.

Quello che nel 25 aprile è stato definito “tensione” in piazza, sedata dal provvido intervento di polizia, non è stato un “fascismo” di ritorno, ma un procedere dell’imperialismo verso nuove, attuali distruzioni, genocidi, minaccia nucleare riattivata. Il motivo per cui le bandiere con la stella di Davide e quella palestinese non si siano “conciliate” non dipende da chi le innalzava, ma dall’orrore genocida scatenato dall’imperialismo armato dei nostri giorni. Non riusciamo nemmeno a contare i morti tra russi, ucraini, palestinesi, israeliani, iraniani, siriani, yemeniti, ecc., tanto per citare alcune nazionalità a noi più prossime. Chi intende pacificare mentre continua a uccidere, cerca solo la cancellazione della verità in questo tempo e soprattutto in quello futuro. Chiamare “fascismo” l’attuale governo italiano può essere legittimo nell’evocare tratti comuni, e ce ne sono: l’Italia anche oggi è impegnata nella guerra (sebbene ancora in forma defilata), tende a impedire la libertà di pensiero, di stampa, di manifestazione, attua un pesante revisionismo storico nell’equiparazione arbitraria di fascismo e comunismo, nelle indicazioni dello studio della storia, nella disinformazione di massa, nel tentativo di riformulare la Costituzione, di controllo della magistratura, ecc. Riconoscere che però sussiste ancora una seppur fragile democrazia è fondamentale per individuare anche, attraverso i non pochi scivoloni di questo governo, una sua strutturale confusione reazionaria che si può contrastare e forse eliminare.

A tutto ciò non deve inoltre mancare un’analisi del dominio tecnologico, di cui la centralizzazione del capitale ormai dispone e di cui, “il fascismo che c’è”, ne è espressione. Non è scontato, infatti, che la putrescenza imperialistica debba mantenere per molto ancora il dispotismo di una gang nascosta ma ancora dominante, senza perdita di controllo per effetto della concorrente conflittualità transnazionale, cui si aggiunge la precarietà del degrado planetario. Chi cerca la pace non basta che la invochi pronunciandone le sillabe, deve dire anche di chi e per chi. Deve lottare per conquistarla, come soprattutto la Resistenza ci ha insegnato.

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