Come gli Stati Uniti stanno fagocitando l’industria tedesca


di Giacomo Gabellini

Poche settimane fa, Markus Krebber, amministratore delegato di Rwe, una delle principali aziende energetiche tedesche, ha dichiarato che è improbabile che l’industria nazionale si riprenda ai livelli pre-guerra in Ucraina, poiché i prezzi elevati del gas naturale liquefatto importato hanno «collocato la più grande economia europea in una posizione di svantaggio». A risentirne maggiormente sono stati i comparti energivori come quello dell’industria pesante. Thyssenkrupp, colosso dell’acciaio, ha proclamato che la capacità produttiva presso il suo sito di Duisburg verrà ridotta del 20% circa (da 11,5 a 9-9,5 milioni di tonnellate all’anno), per effetto di provvedimenti implicanti un netto ridimensionamento della forza lavoro.

Thyssenkrupp Steel Europe impiega circa 27.000 dipendenti, la maggior parte dei quali opera proprio presso lo stabilimento di Duisburg. Il quale è soggetto a un processo di ammodernamento “ecologico” avviato lo scorso anno grazie anche allo stanziamento di sussidi pubblici pari a due miliardi di euro. Come rileva «Reuters», l’annuncio da parte della compagnia siderurgica tedesca «rappresenta il passo più concreto compiuto finora nel rinnovamento del business dell’acciaio, reso necessario dall’indebolimento della domanda e dalla spietata concorrenza esercitata dai rivali asiatici». Più precisamente, spiega l’ufficio stampa di Thyssenkrupp, «con il riallineamento previsto, la più grande azienda siderurgica tedesca intende rispondere alla persistente debolezza dell’economia, oltre che ai cambiamenti strutturali di medio e lungo termine intercorsi nel mercato europeo dell’acciaio. Questi includono, tra le altre cose – soprattutto in Germania – la continua traiettoria ascendente dei costi energetici a causa degli obiettivi di politica climatica, l’aumento incontrollato della pressione sulle importazioni (soprattutto dall’Asia), e un continuo deterioramento della bilancia commerciale dell’acciaio». Fattori che, «nel complesso, stanno riducendo la competitività del settore».

L’incremento dei prezzi di petrolio e (soprattutto) gas naturale, strettamente connesso alla recisione dell’arteria energetica che garantiva all’Europa l’afflusso di idrocarburi russi a basso costo, è quindi andato a combinarsi con le onerosissime politiche ambientali imposte dall’Unione Europea. Il risultato è un netto declino della concorrenzialità europea, destinato secondo Samantha Dart di Goldman Sachs a tradursi in una irreversibile e permanente riduzione della capacità industriale europea. Ancora una volta, la Germania figura nel novero dei Paesi maggiormente colpiti.

Lo si evince da uno studio condotto dal Leibniz-Institut für Wirtschaftsforschung Halle, secondo cui, a marzo, il numero di fallimenti aziendali in Germania è aumentato del 9% su base mensile, a 1.297 unità. Il valore attuale risulta superiore del 35% rispetto al marzo 2023 e del 30% più alto della media dello stesso relativa agli anni 2016-2019. «L’analisi – spiega l’istituto – evidenzia che nel mese di marzo sono stati persi circa 11.000 posti di lavoro».

Il quadro reso già di per sé decisamente critico dall’incremento dei fallimenti aziendali va peraltro aggravandosi per effetto diretto dell’ondata di delocalizzazioni produttive. Un sondaggio realizzato lo scorso settembre dalla Camera di Commercio e dell’Industria tedesca ha infatti attestato che il 43% delle grandi società industriali del Paese stava pianificando di spostare le proprie attività all’estero, con particolare riferimento agli Stati Uniti. Oltre all’energia a basso costo, con prezzi del gas inferiori di oltre la metà rispetto a quelli europei, sono i sussidi pubblici e gli sconti fiscali previsti dall’Inflation Reduction Act ad attrarre le aziende europee. Nel 2023, le società tedesche hanno annunciato impegni di capitale relativi a progetti rivolti agli Stati Uniti per un ammontare complessivo pari alla cifra record di 15,7 miliardi di dollari, a fronte degli 8,2 miliardi di dollari totalizzati nell’anno precedente.

Dal momento che gran parte del tessuto produttivo europeo è saldamente integrato nella catena del valore tedesca, il crollo della Germania trascinerebbe con sé il resto del “vecchio continente”, Italia compresa.

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