Gaza sotto assedio: la fame come arma di guerra

08 Maggio 2025 10:00 Loretta Napoleoni



di Loretta Napoleoni per l'AntiDiplomatico


Si può fare la guerra con le armi, con le bombe, con i droni. Oppure si può fare la guerra con la fame. La fame è un’arma silenziosa, chirurgica, economica e politicamente spendibile: non lascia le macerie di un bombardamento né produce immagini spettacolari, ma incide nei corpi con una precisione letale. La si nega come strumento bellico, e proprio per questo funziona. È la strategia dell’inedia pianificata, dell’assedio disumanizzante, della privazione scientifica delle risorse vitali.

A Gaza, oggi, tutto questo è realtà. E non è una novità. È la ripetizione di un modello antico, perfezionato nel tempo e reso più sofisticato da tecnologie di controllo e narrazioni ufficiali. E’ tutto gia’ successo prima. Nel 1915 l’Impero Ottomano sterminava gli armeni anche con la fame, deportandoli nei deserti siriani e lasciandoli morire di stenti, bloccando gli aiuti, impedendo qualsiasi soccorso. Il genocidio armeno si è consumato anche nelle pance vuote, nei silenzi delle marce forzate, nella morte per disidratazione dei bambini.

Gaza, nel 2024 e 2025, è l’eco spietata di quella stessa logica: una popolazione civile, affamata, spinta a muoversi verso campi sorvegliati in cui il cibo viene distribuito sotto controllo biometrico. Non è una metafora, è un piano. Il nuovo piano di Israele. Ufficiale. Ed ecco come lo racconta al Jazeera: i palestinesi del nord vengono spinti nel sud, reclusi in sei hub alimentari. Ogni famiglia deve mandare qualcuno a ritirare un pacco alimentare a settimana. Chi non lo fa, muore. Il tutto gestito da compagnie private di sicurezza, spesso americane, e da tecnologie di riconoscimento facciale per “impedire” che Hamas acceda agli aiuti.

In realtà, ogni uomo in età adulta viene trattato come sospetto, e quindi la distribuzione è già, in sé, una selezione. È questo il punto: quando il cibo è condizionato all’obbedienza, diventa una sentenza.

Le Nazioni Unite parlano di piani inapplicabili, inumani. Alcuni esperti, come Diana Buttu, vanno oltre e lo definiscono per quello che è: una strategia di pulizia etnica, una cantonizzazione della fame. Se si guarda il piano da una prospettiva logistica non ha senso. Ma se si assume che l’obiettivo non sia nutrire, ma svuotare, disintegrare, ridurre la resistenza e frammentare l’identità, allora tutto diventa perfettamente razionale.

È una guerra di logoramento, di corrosione interna, di morte lenta. E come nel 1915, la comunità internazionale assiste, annota, deplora, ma non interviene. Perché intervenire significherebbe compromettere equilibri, rompere alleanze, incrinare la narrativa. La fame non è mai neutrale: è un’arma geopolitica, un’arma economica, un’arma comunicativa.

È la fame a rendere una popolazione gestibile, la fame a renderla invisibile. Le immagini che arrivano da Gaza sono sempre le stesse: bambini scheletrici, madri che frugano nella terra, uomini disperati in coda per un sacchetto di farina. E sono immagini che si sovrappongono ad altre, a quelle degli armeni nel deserto, dei prigionieri nei campi, degli assediati dimenticati. Cambiano i volti, cambiano i nomi, ma il meccanismo resta.

L’arma della fame è più efficace quanto meno fa notizia. Ecco perché oggi la notizia non è la fame, ma il silenzio che la circonda. Un silenzio costruito, voluto, ripetuto. Perché forse l’aspetto più sconvolgente non è l’azione dei carnefici, ma l’indifferenza di chi guarda. L’opinione pubblica globale, oberata da crisi simultanee e abituata a una dieta di indignazione selettiva, non riesce più a reagire. L’empatia è disarticolata, il diritto umanitario è un concetto astratto, la sofferenza è gerarchizzata.

Nel 1915 le potenze europee condannarono il genocidio armeno senza mai fermarlo davvero. Oggi si assiste alla crisi di Gaza con la stessa impotenza mascherata da diplomazia. I governi si trincerano dietro formule prudenti, i media oscillano tra eufemismi e omissioni, l’opinione pubblica finisce per normalizzare l’orrore. Ma l’indifferenza è complicità. Quando la fame viene usata per uccidere e il mondo tace, anche il silenzio diventa un’arma. E ogni volta che ci si volta dall’altra parte, si prepara il terreno per il prossimo genocidio. La fame non è un destino. È una scelta. Una tecnologia di potere. E come ogni tecnologia può essere smascherata, fermata, disinnescata. Ma prima bisogna chiamarla con il suo nome. Genocidio.



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