Il Cortocircuito logico del "fascismo eterno"

di Herve' Baron

NOTE BIBLIOGRAFICHE•

ECO, U. ([1997]2019): Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano, pp. 51, € 6, ISBN: 978-88-9344-241-1.

Stai per cominciare a leggere la mia recensione de Il fascismo eterno, che è uno scritto di Umberto Eco. Rilassati. Raccogliti. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto e … spegni per un attimo la televisione – col suo inutile chiacchiericcio, la sua mancanza di approfondimento, le sue distinzioni basate solo sul tifo identitario.

Atto I: analisi generale

Il fascismo eterno fu originariamente pubblicato da Bompiani nel 1997, con altri saggi, in una raccolta intitolata Cinque scritti morali e deriva da una conferenza tenuta qualche tempo prima, nel 1995, negli USA.

Eco (d’ora innanzi: l’autore), successivamente a qualche pagina introduttiva dal sapore autobiografico, entra nel vivo del suo argomento, affermando (a p. 18): «Se pensiamo […] ai governi totalitari che dominarono l’Europa prima della seconda guerra mondiale, possiamo dire con tranquillità che sarebbe difficile vederli ritornare nella stessa forma in circostanze storiche diverse», subito dopo aver dichiarato (sempre a p. 18): «Noi siamo qui per ricordare ciò che accadde e per dichiarare che “loro” non debbono farlo più. Ma chi sono “loro”?»

Per rispondere alla sua stessa domanda, l’autore introduce una serie di considerazioni, che riporto. A p. 22 si legge: «Se per totalitarismo si intende un regime che subordina ogni atto individuale allo stato e alla sua ideologia, allora nazismo e stalinismo erano regimi totalitari».

Sempre a p. 22: «Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia. Al contrario di ciò che si pensa comunemente, il fascismo italiano non aveva una sua filosofia».

Inoltre, a p. 25, viene ulteriormente specificato che: «[I]l fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza. Il fascismo era un totalitarismo fuzzy. Il fascismo non era un’ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni» (enfasi nell’originale).

Infine, l’autore sottolinea, alle pp. 26-27, che: «Ci fu una sola architettura nazista, e una sola arte nazista. Se l’architetto nazista era Speer, non c’era posto per Mies van der Rohe. Allo stesso modo, sotto Stalin, se Lamarck aveva ragione non c’era posto per Darwin. Al contrario, vi furono certamente degli architetti fascisti, ma accanto ai loro pseudocolossei sorsero anche dei nuovi edifici ispirati al moderno razionalismo di Gropius» per poi ribadire, a p. 30, che: «L’immagine incoerente che ho descritto non era dovuta a tolleranza: era un esempio di sgangheratezza politica e ideologica».

• Questo scritto deve molto all’amico Francesco Miccio, che mi ha suggerito la critica ontologica a Eco; all’amico Francesco Sacconi, che mi ha spinto ad approfondire lo studio del fenomeno fascista; all’amico Luca Grecchi, con cui ho discusso l’accuratezza filosofica del mio argomentare; all’amico Nicolò Bellanca, che ha appurato la linearità del mio ragionamento.

Tutti gli errori e le imprecisioni rimasti sono unicamente mia responsabilità.

Dopo cotante premesse, le quali puntano tutte verso l’esistenza, nell’ambito del fascismo italiano, di inconciliabili incoerenze, il lettore si aspetterebbe, da parte dell’autore, un’analisi della sua genesi storica; magari una versione divulgativa di quanto andava trovando e ricostruendo il De Felice .

Nulla di tutto ciò!

L’autore, infatti, a p. 33, afferma perentoriamente che: «A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. Tali caratteristiche non possono venire irregimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per coagulare una nebulosa fascista».

Abbiamo dunque che:

i. Il fascismo italiano viene individuato come fenomeno intrinsecamente contradditorio. ii. Tuttavia, si pretende di individuare una lista di caratteristiche che sarebbero tipiche non solo e non tanto del fascismo storicamente esistito quanto di un preteso “fascismo eterno” (e, con questa mossa, si sta surrettiziamente passando dal piano storico a quello ontologico e metafisico2, poiché ci si sta innalzando dal livello del divenire a quello dell’eternità).

iii. Infine, si dichiara solennemente condizione necessaria e sufficiente «per coagulare una nebulosa fascista» (cit.) la presenza di una soltanto delle caratteristiche che verranno fornite. Probabilmente, anche il lettore meglio intenzionato avrà notato l’enorme incongruenza in cui è incorso l’autore rispetto alle proprie premesse logiche: poiché, se si denuncia l’intrinseca contraddittorietà del fascismo quale fenomeno storico, l’unica strada sensata da percorrere è la ricostruzione, per l’appunto storica, del fenomeno che si vuole indagare (come ha tentato di fare il De Felice). Diviene dunque impossibile, per la contradizion che nol consente, postulare che invece sia determinabile una lista di caratteristiche, la presenza di una o più delle quali, nonostante esse risultino dichiaratamente incoerenti, individuerebbero senza fallo una sedicente «nebulosa fascista» (cit.) pretendendo, per soprammercato, d’identificare un fantomatico “fascismo eterno”.

Tant’è che i guai più grossi in cui si va a cacciare l’autore non si situano a livello logico, bensì ontologico e metafisico.

A questo punto, per approfondire minimamente la faccenda, è indispensabile fare un preambolo. Umberto Eco, infatti, pur essendo stato un semiologo di chiara fama, ha raggiunto notorietà e rinomanza presso il grande pubblico, italiano ed estero, come romanziere. In special modo col suo esordio letterario, il celeberrimo Il nome della rosa, pubblicato originariamente nel 1980.

Il libro, la cui trama si presenta come un giallo ambientato nella parte finale del Medioevo, nasconde in realtà un ordito filosofico, implicito ma chiarissimo per chi lo sappia cogliere.

Tra coloro che colsero la portata filosofica del romanzo, vi fu un gesuita, padre Guido Sommavilla, che ne scrisse una vera e propria requisitoria, intitolata: L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco (Sommavilla, 1981).

Non è assolutamente necessario essere d’accordo con l’impostazione generale del summenzionato gesuita per capire che, rispetto all’argomento in discussione, egli abbia perfettamente ragione. Del resto, non mi risulta che l’autore abbia contestato l’accusa del suo recensore e critico in talare. Il fatto è che Eco si collocava allora nel milieu filosofico, oltreché letterario, del cosiddetto postmodernismo. Dato che il post-modernismo filosofico, più che come una verace e coerente scuola , si configura come una vera e propria “moda filosofica”, sarò qui costretto a tagliare le cose non con la consueta accetta, bensì con una grande scure.

Quel che conta per noi è richiamare il fatto che, nel milieu post-modernista, il concetto stesso di Verità filosofica viene irrimediabilmente irriso e ridotto a ermeneutica e prospettivismo. Da qui il nichilismo, che il Sommavilla chiaramente rileva.

Inoltre, ne Il nome della rosa, il protagonista Guglielmo da Baskerville si fa portavoce delle tesi nominalistiche di Guglielmo di Occam, tanto che l’autore, spesso, nei dialoghi del primo Guglielmo nasconde citazioni criptate del secondo. Da qui il nominalismo, anch’esso prontamente rilevato dal Sommavilla .

È bensì vero che, nel 1990, l’autore, probabilmente reagendo agli eccessi ermeneutici tipici del milieu post-modernista, pubblica il saggio I limiti dell’interpretazione.

È altresì vero che, a partire dal 1997, col saggio Kant e l’ornitorinco, l’autore comincerà una lenta e lunga rimessa in discussione dei propri presupposti, nichilistici e nominalistici, percorso che culminerà nel 2012 con un contributo al libro collettaneo Bentornata realtà.

Resta tuttavia il fatto che, al momento in cui la conferenza all’origine del testo che stiamo analizzando fu pronunciata (1995), tale ripensamento era di là da venire.

Abbiamo dunque a che fare con lo scritto di un autore il quale non solo surrettiziamente trasferisce la propria analisi dal piano storico ed empirico a quello ontologico e metafisico (ché, lo ripeto, quando si pretende di fornire una lista di caratteristiche che contraddistinguono qualcosa di “eterno”, ossia che connotano l’imperitura essenza di qualcosa, volenti o nolenti di ontologia e metafisica ci si sta occupando), ma anche, e ciò è ancor più grave, indaga tale piano in una maniera che contraddice totalmente la sua propria impostazione filosofica di base.

Rebus sic stantibus, potrei chiudere qui la mia recensione. Qualunque lettore, infatti, anche il più digiuno di filosofia, avrà compreso che ci troviamo dinnanzi ad un testo superficiale e poco serio. Nonostante ciò, ritengo sia utile continuare nell’approfondimento dell’argomentazione dell’autore, la quale, lo anticipo al lettore, ci regalerà delle chicche degne di nota.

Atto II: scendendo nei particolari

L’autore declina la pretesa essenza dell’altrettanto preteso Ur-Fascismo in quattordici punti (la presenza di uno o più dei quali, lo ricordo, basta per caratterizzare un qualsiasi fenomeno come manifestazione di Ur-Fascismo – pur essendo tali punti, secondo l’autore, in contraddizione reciproca). Io li menzionerò tutti, anche se mi limiterò a commentare solo i più “meritevoli”.

1. Culto della tradizione. Scrive l’autore, alle pp. 35-36: «La più importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l’alchimia con il Sacro Romano Impero». Inoltre, egli, subito prima, a p. 33, aveva definito quell’escremento di Evola: «[U]no dei più rispettati guru fascisti […]».

In realtà ciò che l’autore ha di mira è il sincretismo, di cui egli scrive, alle pp. 34-35: «“Sincretismo” non è solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni». Altre delucidazioni a riguardo non vengono fornite. Soprattutto, l’autore mostra di ignorare completamente la differenza tra la semplice giustapposizione di concetti, teorie, spiegazioni, ecc., provenienti da fonti varie (questo sì vero sincretismo nel senso deteriore da lui inteso) e la loro ri-articolazione in qualcosa di nuovo e differente dalle fonti di partenza.

Questa mancanza d’approfondimento lo espone a conseguenze degne di nota.

Scrive egli, infatti, con la massima convinzione e sicumera, a p. 36: «Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l’indicazione “New Age”, troverete sant’Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme sant’Agostino e Stonehenge, questo è un sintomo di Ur-Fascismo» (enfasi nell’originale).

Provando ad usare la stessa impostazione dell’autore (completamente digiuna della differenza tra giustapposizione e ri-articolazione), riscriviamo il suo esempio, per portarne la logica interna alle estreme conseguenze: “Se curiosate tra gli scaffali delle librerie dell’usato, magari vi imbatterete in un vecchio opuscolo di Lenin, intitolato: Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, in cui si sostiene che il marxismo metta insieme: a. la filosofia classica tedesca; b. l’economia politica (borghese) inglese; c. il socialismo utopistico francese. Nessuna di queste fonti, di per sé, è fascista, ma il fatto di metterle insieme, questo è un sinonimo di Ur-Fascismo”. Insomma, sembrerebbe di capire che anche il Moro ...

2. Rifiuto del modernismo. Scrive l’autore, alle pp. 36-37: «Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia […]. Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden)» (enfasi nell’originale).

Qui pare che l’autore non abbia mai sentito parlare né di “modernizzazione selettiva” dei late comers (ossia: i Paesi che hanno conosciuto un processo di industrializzazione in un momento successivo all’ondata della prima Rivoluzione industriale) né, soprattutto, di “modernismo reazionario”, nonostante il testo dello Herf fosse già stato pubblicato e anche tradotto in italiano.

A p. 37, inoltre, l’autore aggiunge: «L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”».

Qui, invece, egli avrebbe fatto probabilmente meglio a sollevare, più che il problema del presunto “irrazionalismo”, la questione del patente anti-liberalismo del fascismo storico (ché, l’Ur-Fascismo, essendo un non-concetto-che-sta-solo-nella-testa-dello-autore, risulta del tutto irreale).

3. Culto dell’azione per l’azione. In realtà l’autore ha di mira l’anti-intellettualismo; infatti, a p. 38, egli scrive: «Il sospetto verso il modo intellettuale è sempre stato sinonimo di Ur-Fascismo».

Qui siamo al di sotto di ogni decenza ermeneutica.

Difatti, anche altre tradizioni politiche furono caratterizzate da un più o meno spiccato antiintellettualismo. Tra esse, ve ne fu anche una che possiamo ben considerare l’esatto opposto del fascismo, ossia l’anarchismo .

Per capire perché la galassia anarchica abbia sviluppato forme di anti-intellettualismo, lascio la parola al Bihr, il quale, nel primo capitolo del suo Dall’“assalto a cielo” all’“alternativa”. Oltre la crisi del movimento operaio europeo, scrive (Bihr ([1991]1998), p. 36): «In linea con l’ispirazione anarchica, il sindacalismo rivoluzionario […] si faceva portatore di uno spirito antiautoritario che non escludeva una certa diffidenza verso i politici e gli intellettuali, oltreché verso tutti coloro che, non facendo parte del proletariato e non vivendo delle sue lotte quotidiane, pretendevano di impartirgli lezioni o dirigerlo, foss’anche sulla strada della liberazione. Il sindacalismo rivoluzionario non era quindi immune da una certa dose di antintellettualismo […]. Nonostante ciò, il sindacalismo rivoluzionario metteva continuamente l’accento sull’importanza dell’educazione del proletariato» (enfasi nell’originale).

E come veniva attuata l’educazione del proletariato, a cui gli anarchici davano tanta importanza?

Per capirlo, prendiamo l’esempio dell’unico Paese in cui l’anarchismo sia divenuto, per un certo periodo, non solo un fenomeno di massa ma anche un fenomeno largamente maggioritario: la Spagna pre-franchista. Ci informa l’Enzensberger, nella “Glossa seconda” del suo La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti (Enzensberger ([1972]2002), p. 30): «Alla svolta del secolo [tra fine XIX e inizio XX sec. e.v., aggiunta di H.B.] si potevano incontrare dappertutto nella Spagna meridionale gli “apostoli dell’idea”, che attraversavano la campagna a piedi, a dorso d’asino o in carro coperto, senza un centesimo in tasca. I lavoratori li accoglievano e davano loro da mangiare. […] In questa maniera si mise in moto un processo di educazione a livello di massa. […] In ogni villaggio esisteva un “Illuminato,” un “lavoratore cosciente,” riconoscibile per il fatto che non fumava, non giocava, non beveva, che faceva professione di ateismo, che non era sposato con la sua donna, cui era fedele, che non faceva battezzare i bambini, che leggeva molto e che cercava di trasmettere agli altri tutto ciò che sapeva» (enfasi aggiunta).

Mi spieghi l’autore, o chiunque altro, in che modo quanto qui sopra riportato c’entri col fascismo, comunque inteso.

4. Non accettazione della critica.

5. Paura della differenza. L’autore scrive, a p. 39: «L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza». E poi, subito dopo, sempre a p. 39: «Il primo appello di un movimento fascista […] è contro gli intrusi. L’Ur-Fascismo è dunque razzista per definizione».

La domanda sorge spontanea: perché l’autore, sulla base delle premesse da lui stesso poste (paura della differenza e degli intrusi), definisce l’Ur-Fascismo razzista quando esso risulta chiaramente “soltanto” xenofobico10?

10 Questo snodo è complesso, e va approfondito. Scrive, infatti, Cornelius Castoriadis (Castoriadis [1987]1998, pp. 250-

251): «La società – ogni società – s’istituisce creando il proprio mondo […]. In questa creazione del mondo c’è sempre un posto, in un modo o nell’altro, per l’esistenza di altri umani e di altre società. […S]i aprono tre possibilità: le istituzioni di questi altri (e dunque gli altri medesimi!) possono essere considerate superiori (alle “nostre”), oppure inferiori, o infine equivalenti. Notiamo subito che il primo caso comporterebbe contemporaneamente una contraddizione logica e un suicidio reale. La considerazione delle istituzioni “straniere” come superiori da parte […] d’una [intera] società (e non di questo o quell’individuo) è del tutto esclusa […]. Se[, p.es.,] la legge francese ordinasse ai tribunali: “In tutti i casi, applicate la legge tedesca”, si sopprimerebbe come legge francese. Può accadere che questa o quella istituzione […] sia ritenuta valida e venga effettivamente adottata; ma l’adozione globale e senza restrizioni di fondo delle istituzioni […] di un’altra società implicherebbe la dissoluzione della società mutuataria in quanto tale.

L’incontro consente dunque solo due possibilità: gli altri sono inferiori; gli altri sono uguali a noi. L’esperienza dimostra, come si dice, che la prima strada è seguita quasi sempre, la seconda quasi mai» (enfasi nell’originale).

Dalla lunga citazione che precede, possiamo cominciare a trarre la conclusione che, siccome per ogni società che si (auto)istituisce le proprie istituzioni sono le uniche in ultima istanza vere, ciascuna società tende spontaneamente alla xenofobia, dato che, per mantenere intatta la propria identità particolare, ha la tendenza ad istituire l’altro come inferiore – nonché pericoloso per la propria autenticità – e non solo come altro.

Poche pagine dopo, il Castoriadis (Castoriadis [1987]1998, p. 254) aggiunge: «La sola vera specificità del razzismo (riguardo alle molteplici varietà di odio degli altri), la sola che sia decisoria, come dicono i logici, è la seguente: il vero razzismo non consente agli altri di abiurare (li perseguita o li sospetta anche quando hanno abiurato […]). La cosa sgradevole è che siamo costretti ad ammettere che troveremmo il razzismo meno abominevole se si accontentasse di ottenere conversioni forzate […]. Ma il razzismo non vuole la conversione degli altri, ne vuole la morte» (enfasi nell’originale).

Quest’analisi risulta molto pregnante ricordando p.es. il fatto che, durante la persecuzione nazional-socialista verso gli ebrei, a questi ultimi non era concesso di salvarsi neppure convertendosi al cristianesimo: dal razzismo biologista nazional-socialista, infatti, essi avrebbero continuato ad essere ritenuti ebrei.

In definitiva, ciò che l’analisi del Castoriadis chiarisce è che: i. ogni società istituita tende alla xenofobia (e, aggiungo io: solo un profondissimo lavoro politico può spingere una data società ad istituire l’altro semplicemente come altro); ii. tra xenofobia e razzismo, dal punto di vista concettuale, c’è una sorta di “salto quantico”.

6. Appello alle classi medie frustrate. Scrive l’autore, a p. 39: «[U]na delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni».

Qui i rilievi da fare sono sia teorici che storici. Ad ogni modo, cercherò di essere telegrafico. Per quanto riguarda il piano storico, vari studi (tra i quali spicca quello del Salvatorelli, Nazionalfascismo, uscito praticamente in tempo reale – è infatti del 1923 ) hanno interpretato il fascismo italiano come rivolta di una particolare frazione della piccola borghesia, la piccola borghesia umanistica, strato sociale sensibile a una mentalità retorica e, dopo la grande guerra, strato sociale emergente.

Per quanto riguarda il piano più schiettamente teorico, invece, dato che ci troviamo nel pieno della

“fase dialettica” del capitale, e dunque al tempo della “classi-soggetto”, è molto più corretto parlare di piccola borghesia (o di frazioni della stessa) che di generiche classi medie.

7. Complottismo. Scrive l’autore, a p. 40: «[A]lla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale».

In questo caso specifico meglio l’autore avrebbe fatto ad approfondire un minimo le sue affermazioni o … a tacere. Difatti, la naturale tendenza degli esseri umani è all’antropomorfizzazione dei fenomeni, siano essi fenomeni naturali, sociali, religioni, ecc.

Solamente un grande sforzo di riflessione: scientifica, storica, filosofica, ecc., permette di oltrepassare questo primo stadio per arrivare a cogliere le leggi scientifiche (invece dei fenomeni bruti), i processi storici strutturali (invece del mero operare degli agenti storici), il proprio tempo appreso col pensiero (invece dell’immediato rispecchiamento quotidiano). E dunque, solo dopo aver chiarito quanto precede possiamo tentare di dare un’interpretazione minimamente fondata dei dilaganti (e connessi) fenomeni, che effettivamente caratterizzano questi nostri tempi (bui), del cospirazionismo e delle visioni paranoiche del mondo.

In effetti, se l’essere umano è naturalmente portato ad “antropomorfizzare” i fenomeni in cui incorre; se, al contrario, il capitale, inteso quale fenomeno sociale, soprattutto oggi che è arrivato alla sua fase “assoluta o speculativa”, si caratterizza per il fatto di essere (fondamentalmente) non antropomorfico; se, infine, per passare da una visione antropomorfizzante ad una non antropomorfizzante sono necessarie una capacità d’astrazione e di visione sistemica in termini di totalità che non tutti raggiungono (anche perché il capitale, il quale agisce sempre e solo in modo “sistemico”, funziona proprio in modo da inibirla nella maggior parte della popolazione), allora ne consegue che molte delle persone che si rendono (più o meno vagamente) conto del fatto che qualcosa nel nostro mondo sociale non va, tendano poi a percepire tale fenomeno nei termini di un complotto ordito da qualche

singolo personaggio pensato come (quasi) onnipotente, sia esso George Soros, Bill Gates, o chiunque altro.

Al massimo, le (limitate) capacità d’astrazione di costoro li porteranno a immaginare una sorta di super-lobby che tutto controlla – si tratti della massoneria, degli alieni, ecc. ecc. ecc., senza dimenticare i sempiterni … “perfidi giudei”.

Naturalmente, lo scrivente non nega la realtà (e la forza) di organizzazioni lobbystiche transnazionali come la massoneria (mentre ho delle riserve sugli alieni e non credo assolutamente alla parabola dei “perfidi giudei”); tuttavia, penso altresì che tali organizzazioni vadano contestualizzate nella struttura sociale del modo di produzione capitalistico.

Se si fa ciò, diviene chiaro che, mentre Soros o Gates sono solo dei “ragazzi immagine” del capitale, la massoneria e le altre lobbies transnazionali non sono altro che organizzazioni attraverso cui le varie frazioni (piccole o grandi) dei vari capitali, nazionali transnazionali e internazionali, cercano di trovare tra loro accordi e/o compensazioni. In altre parole: della massoneria (così come di tutto il resto) non si può capir nulla se non la si àncora al meccanismo di funzionamento del capitale, vero e proprio Sole attorno a cui, nel nostro mondo sociale, tutto deve ruotare.

Resta il fatto che persino il limitarsi a inveire contro personaggi quali Soros, Gates, ecc., pur essendo, come ho appena tentato di rilevare, del tutto insufficiente e, entro certi limiti, anche sbagliato, significa dimostrare comunque di possedere più acume dell’autore. Ché, chi si ferma a questo livello più che elementare, per lo meno dà prova di intuire che non tutto vada per il meglio. Non così l’autore, il quale, con la sua solita sicumera, giunge solo ad affermazioni assolutamente superficiali e dunque patentemente insensate.

8. Incapacità di valutare con obiettività la forza del Nemico.

9. Concezione della vita come guerra permanente.

10. Elitarismo. Scrive l’autore, alle pp. 42-43: «L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. […L]’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”».

A parte il fatto che l’espressione “elitismo popolare” non ha senso alcuno, a me risulta che, p.es., il fascismo italiano avesse, piuttosto, un vero e proprio feticismo per le gerarchie. Infatti, Gerarchia si chiamava la rivista ufficiale del fascismo fondata nel 1922 dallo stesso Mussolini; “gerarchi” erano chiamati i fascisti di alto calibro; mostrine e galloni di svariati tipi erano distribuiti, dalle varie organizzazioni fasciste, agli aderenti – con ciò tentando di popolarizzare non tanto l’elitismo quanto la gerarchizzazione sociale.

Se vogliamo trovare fenomeni politici intrinsecamente elitisti, dobbiamo rivolgerci altrove. E, magari, i risultati potrebbero sorprenderci e non piacerci .

11. Culto dell’eroismo. Scrive l’autore: «[C]iascuno è educato per diventare un eroe» (p. 44, enfasi nell’originale).

Riguardo al punto in questione, la domanda che personalmente mi faccio, ma che l’autore, evidentemente, si è guardato bene dal porsi, è: tale culto dell’eroismo è stato solamente una

particolare degenerazione imputabile al solo fascismo storico novecentesco o è intrinseco alla cultura nostra (ossia: dell’Europa occidentale) e … giapponese? In effetti, noi abbiamo avuto gli ordini cavallereschi (religiosi e non religiosi) medioevali e loro i samurai. In entrambi i contesti veniva data ampia importanza a concetti come onore e sacrificio, e dunque il culto dell’eroismo vi trovava ampia eco.

Ammetto che la mia incompetenza in materia m’impedisce di andare più a fondo; tuttavia, di due cose resto convinto: a. che la superficialità sia nemica della Verità; b. che la mancanza d’interesse per la Verità sia uno dei problemi (e non il minore) del momento storico che stiamo vivendo.

12. Machismo e invidia del pene.

13. Populismo. In realtà l’autore ha di mira l’antiparlamentarismo. Infatti, a p. 46, egli scrive: «A ragione del suo populismo qualitativo, l’Ur-Fascismo deve opporsi ai “putridi” governi parlamentari» (enfasi nell’originale). Inoltre, egli aggiunge, a p. 47: «Ogni qual volta un politico getta dubbi sulla legittimità del parlamento perché non rappresenta più la “voce del popolo”, possiamo sentire l’odore di Ur-Fascismo».

Il mio primo commento non può che essere: bentornati ad un livello al di sotto di ogni decenza ermeneutica!

Difatti, siccome erano antiparlamentari, oltre al fascismo storico, anche tutte le correnti del marxismo rivoluzionario europeo (leninisti, bordighisti, luxemburghiani, ecc.), per non parlare del movimento anarchico in toto, vuol forse sostenere l’autore che tutti costoro fossero UrFascisti?

Inoltre, l’autore, come molti altri prima e dopo di lui, si guarda bene dal definire in un qualsiasi modo il “populismo” .

14. Uso di una neo-lingua di tipo orwelliano. Scrive l’autore, a p. 47: «Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complessivo e critico».

Anche in questo caso, l’osservazione dell’autore non è né particolarmente importante di per sé, né, come al solito, particolarmente corretta.

Atto III: conclusioni inconcludenti riguardanti un sopravvalutatissimo testo

Abbiamo già osservato, in quanto precede, come trovare una definizione abbastanza precisa e generale di fascismo risulti molto difficoltoso. Possiamo, comunque, in prima istanza tentare una ricostruzione della genesi storica – esattamente ciò che l’autore ha evitato di fare nel testo testé analizzato – del fenomeno fascista, per verificare se tale ricostruzione presenti il tratto dell’“universalità” (ossia se essa si attagli ad ogni fenomeno che la Storia ci ha tramandato come fascista).

È noto che il fascismo nasce in Italia all’inizio del XX sec. e.v. Per la precisione, esso nascerebbe subito dopo la fine della Prima guerra mondiale a Milano, con la fondazione, da parte di Mussolini, dei Fasci italiani di combattimento.

Purtroppo, come sosteneva il Vecchio (Hegel): «Il noto in genere, appunto perché noto, non è conosciuto. Quando nel conoscere si presuppone alcunché come noto e lo si tollera come tale, si finisce con l’illudere volgarmente sé e gli altri; allora il sapere, senza nemmeno avvertire come ciò avvenga, non fa un passo avanti nonostante il grande e incomposto discorrere ch’esso fa»15. In effetti, se ci rifacciamo agli studi dello Sternhell16, dobbiamo concludere che, in realtà, dal punto di vista ideologico, il fascismo nasce in Francia, nella seconda metà del XIX sec. e.v. Per la precisione, a partire dagli anni Settanta-Ottanta di detto secolo. E in che modo?

Fondamentalmente (ma, ancora una volta, sto tagliando le cose con una grossa scure …) sostituendo al concetto di classe, inteso quale concetto attorno a cui costruire la mobilitazione di massa, il concetto di nazione17.

15 Cfr. Hegel ([1807]1967), p. 25, enfasi nell’originale.

16 A questo proposito, rimando a: Sternhell ([1978]1997); Sternhell ([1983]1997); Sternhell ([1989]2002).

17 Anche codesto snodo merita un approfondimento. Notiamo subito che i concetti di società classista (in generale) e di classe rivoluzionaria (in particolare), per come sono stati elaborati da Marx e dal marxismo successivo, risultano quantomeno spinosi.

In effetti, che la classe rivoluzionaria individuata da Marx sia il proletariato, inteso quale vera e propria “classe filosofica” (come nei primi scritti, pubblicati negli Annali franco-tedeschi), il proletariato inteso invece quale “classe soggetto” e definito in modo vieppiù sociologico (come nel Manifesto del partito comunista), oppure il lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect (come ne Il Capitale e negli scritti inediti coevi), alcuni punti restano fermi.

Innanzitutto, lo schema marxiano per l’interpretazione delle società classiste è uno schema sostanzialmente diadico, in cui le classi fondamentali sono e restano due (nel moderno capitalismo: proletariato e borghesia; le quali classi, in un momento successivo, verranno ri-concettualizzate come: lavoratore collettivo cooperativo associato e classe capitalista), indipendentemente dalle possibili complicazioni, tanto dal lato dei dominati (aggiunta di altre classi, seppur non rivoluzionarie – quando non del tutto reazionarie: sottoproletariato, contadini, piccola borghesia) quanto dal lato dei dominanti (frazioni all’interno della borghesia: borghesia industriale, aristocrazia finanziaria, grande proprietà fondiaria, ecc.).

In secondo luogo, detto schema deriva dalla figura dialettica hegeliana concernente il rapporto signoria/servitù. E qui cominciano i grattacapi, poiché, mentre tale figura si attaglia molto bene a praticamente tutte le società pre-capitalistiche, in cui il signore non lavora, limitandosi a predare il frutto del lavoro altrui, essa non funziona affatto in modo soddisfacente in relazione alla società capitalistica, in cui non solo l’equivalente del signore è un maniaco del lavoro che pensa ininterrottamente a come far fruttare il più possibile il proprio capitale (avendo perso qualsiasi capacità di sano godimento), ma anche, e soprattutto, il sapere dei lavoratori tende ad essere espropriato ed incorporato nel capitale (come, tra l’altro, lo stesso Marx metterà in luce con le sue analisi contenute ne Il Capitale e nei testi inediti del medesimo periodo).

In terzo luogo, il proletariato (comunque inteso) si configura in Marx (ma anche nei successivi marxismi) come il portatore di una vera e propria palingenesi totale della società. Insomma, esso risulta un vero e proprio “mito sociale” (nel senso di Sorel). E, anche quando si adombrano alleanze di classe (come in Lenin) esse devono sempre essere guidate dal proletariato (rectius, visto che stiamo parlando di Lenin: esse vanno guidate dal partito – diretto da intellettuali rivoluzionari di professione, mica da proletari! – in nome del proletariato). L’unico marxista che arriverà, anche se in un modo per quanto riguarda lo scrivente gravemente insoddisfacente, a fare i conti, in una maniera o nell'altra, col “mito” del proletariato di fabbrica sarà Mao Zedong. Tuttavia il marxismo rimarrà, in generale, sempre prigioniero della visione di una rivoluzione sociale in termini “monoclassisti”. E, colui che seppe esprimere questo punto col massimo di chiarezza fu Amadeo Bordiga, il quale, giunto alla fine della sua vita, scriveva in una lettera privata a Umberto Terracini (Bordiga a Terracini, il 4/3/1969, enfasi nell’originale): «[…] Io attendo, in posizione sempre cocciuta e settaria che, come ho sempre preveduto, entro il 1975 giunga nel mondo la nostra rivoluzione, plurinazionale, monopartitica e monoclassista,

Tra l’altro, la ricostruzione della genesi dell’ideologia fascista fornita dallo Sternhell ben si confà non solo al caso francese ma anche a quello italiano. Siamo dunque dinnanzi ad una ricostruzione storica con valore “universale”?

Purtroppo la risposta non può che essere negativa. In effetti, il caso tedesco del nazional-socialismo, p.es., ha poco a che spartire con quanto avvenuto in Francia e in Italia18. Già il De Felice notava le profonde differenze ideologiche tra fascismo italiano e nazional-socialismo tedesco, tanto da dubitare di poter sussumere entrambi sotto una medesima categoria19.

Essenzialmente (e ho sempre in mano la solita scure …), uno tra i fenomeni fondamentali che marcano le difformità tra il fascismo e il nazional-socialismo è: Die Konservative Revolution , la quale è avvenuta solo e soltanto nei Paesi di lingua tedesca.

ossia soprattutto senza la peggiore muffa interclassista, quella della gioventù così detta studente […]». (Molto si potrebbe/dovrebbe dire sul Bordiga teorico, ma in questo caso soprassiederemo, per non rendere codesta nota un papello infinito …).

Arriviamo dunque al cuore del problema dato che, se guardiamo con occhio disincantato la Storia, alla domanda: è stato un concetto maggiormente mobilitante quello di classe o quello di nazione?, non possiamo (purtroppo) che rispondere: quello di nazione.

Si dovrebbe, dunque, sostenere che avevano ragione i fascisti e convertirsi al nazionalismo? Nemmeno per sogno! Quel che si deve assolutamente fare, per quanto mi concerne, è abbandonare, una volta per tutte, tanto il “mito” del proletariato quanto lo schema diadico di Marx nell’analisi delle società classiste. Si dovrebbe, invece, ragionare in termini di: dominanti / frazioni dominate delle classi dominanti + frazioni in ascesa delle classi dominate / dominati, cercando di applicare a questi ultimi una sorta di interclassismo classista (o, se si preferisce: di classismo interclassista) per unirli tutti, attraverso un profondo lavoro politico, contro i dominanti; e badando, contemporaneamente, a che una eventuale rivoluzione non si limiti a sostituire i dominanti attuali con le frazioni dominate delle classi dominanti e/o le frazioni in ascesa delle classi dominate (quest’ultimo, aggiungo tra parentesi, era esattissimamente il problema politico che assillava il Bakunin).

Tra l’altro, l’interclassismo classista è già stato applicato con successo, in passato. Certo, in tutt’altre condizioni socialistoriche e partendo da una visione ideologica che era sì socialista, ma assolutamente non marxista. Vediamo, infatti, cosa scrive l’Enzensberger a p. 34 del suo già citato libro: «La classe operaia spagnola non si è mai distinta, come quella tedesca o quella inglese, per il rispetto della proprietà privata, e, poiché era oppressa dalla violenza armata, ha sempre considerato la resistenza armata un mezzo normale di autodifesa. L’ambiguità politica dei gruppi illegali ha ragioni del tutto diverse. Dipende […] da un fattore sociale che ha sempre svolto a Barcellona un ruolo assai importante: il sottoproletariato. […] Gli operai industriali catalani non hanno preso le distanze da questo strato sociale; vi si sentivano legati e solidarizzavano con esso per diverse ragioni. Anche qui essi si distinguono dagli operai […] dell’Europa occidentale, che, nella loro coscienza, fissano confini ugualmente netti sia verso il basso che verso l’alto» (enfasi aggiunta).

18 Per non parlare del franchismo in Spagna, del salazarismo in Portogallo e, massimamente, del movimento di Codreanu in Romania. Tutti fenomeni che presentano tratti fortemente caratterizzanti e differenti dal fascismo mussoliniano. 19 Il testo ove il De Felice svolge tali considerazioni è il già citato: De Felice (1975), soprattutto le pp. 41-43 e 70-74. Per quanto concerne le differenze tra fascismo italiano e nazional-socialismo tedesco, esse discendono dai differenti contesti sociali e storici in cui le due visioni ideologiche si sviluppano. E dunque, mentre in Italia attecchirà l’idea di nazione, di origine francese, in Germania, a causa di un pregresso percorso storico sui generis, si propalerà invece il concetto di “comunità” (Gemeinschaft), intesa però in senso esclusivistico come “comunità di sangue e suolo” (Blut und boden gemeinschaft). Inoltre, mentre il fascismo coltiverà il culto della violenza (e dell’azione), di ascendenza soreliana, il nazional-socialismo sarà ferocemente e totalmente incline al cosiddetto “darwinismo sociale”. Infine, mentre il fascismo sarà ideologicamente statolatrico, il nazional-socialismo, provenendo da un retroterra Völkisch, considererà lo Stato sempre e solo un mezzo al servizio del (razzialmente purificato) popolo tedesco. Tanto che alcuni storici tedeschi (tra cui Hans-Ulrich Thamer; vedasi Thamer 1993), sottolineando il caos amministrativo del III Reich, arriveranno a parlare dello

Stato nazista come di una “anarchia autoritaria”.

Ad ogni modo, al di là di tutti i proclami e delle differenze ideologiche, saranno i nazional-socialisti e non i fascisti ad avvicinarsi maggiormente al “tipo ideale” (uso quest’espressione nel senso di Weber) dello Stato totalitario.

La ricostruzione meramente storica, dunque, non ci fa compiere apprezzabili passi in avanti nel tentare di comprendere ciò che i vari fenomeni, solitamente classificati come fascisti, hanno avuto in comune. Dobbiamo, di conseguenza, cercare un’altra strada da percorrere.

Proviamo a esplorare un cammino maggiormente rivolto all’articolazione concettuale.

Notiamo, innanzitutto, come, a partire dalla grande Rivoluzione francese, la quale segna, insieme alla Rivoluzione industriale inglese, l’entrata nella fase dialettica del capitale, un nuovo attore si presenti sul proscenio della Storia: le masse.

Notiamo anche, in secondo luogo, come la comparsa di codesto nuovo attore susciti, contemporaneamente, nuove preoccupazioni21 e nuove speranze22. Ad ogni modo, si cercherà di incanalare la forza potenzialmente sovversiva di suddette masse – sia “parlamentarizzandole”23 che

“nazionalizzandole”24.

Possiamo, anzi, constatare come i fascismi, comunque intesi, siano stati un particolare modo di nazionalizzare le masse, modo che risulta (ideologicamente) molto variegato poiché risponde a differenti contesti storici e sociali.

Inoltre, se è bensì vero che il fascismo storico novecentesco, comunque declinato, ha teso alla mobilitazione politica delle masse, è altrettanto innegabile che si sia trattato di una mobilitazione, per così dire, anestetizzante.

Le masse, infatti, dovevano mobilitarsi solo e soltanto sulla base di sollecitazioni provenienti dall’alto (dal Capo e/o dalla gerarchia), mai su base autonoma e dal basso. Si è trattato dunque di una mobilitazione in funzione di un controllo, istigata in modo paternalistico.

Un esempio preclaro di tale mobilitazione passivizzante è rappresentato, a mio modo di vedere, dalla storia della cosiddetta “Tessera del pane”. La tessera d’iscrizione al P.N.F., in effetti, venne soprannominata “Tessera del Pane” per l’importanza che assunse in uno degli aspetti più importanti della vita sociale: il lavoro25.

in certe correnti del fascismo italiano (mi riferisco alla cosiddetta sinistra fascista) la matrice originaria socialista è ancora riconoscibile, seppur abbastanza degenerata (almeno a parere dello scrivente), nel nazional-socialismo di “socialista” non c’è (praticamente) nulla, a parte il nome.

21 E ci sarà chi finirà col parlare di “ribellione” delle masse.

22 Speranze che saranno codificate dal movimento socialista nello slogan: “L’emancipazione della classe operaia dev’essere opera della classe operaia stessa!”. Purtroppo, tali speranze saranno tosto “tradite”, tanto dai partiti socialisti propriamente detti, attraverso la “parlamentarizzazione” e il conseguente addomesticamento della lotta di classe, quanto dai partiti cosiddetti comunisti – in realtà: ricalcati sul modello leninista e/o stalinista –, attraverso la sostituzione de facto del partito alla classe quale soggetto rivoluzionario.

23 Per quanto riguarda codesto argomento, rimane insuperato il libro del Matthias intitolato Kautsky e il kautskismo. La funzione dell’ideologia nella Socialdemocrazia tedesca fino alla prima guerra mondiale (Matthias 1971).

24 Per quanto riguarda codesto argomento, invece, rimane insuperato il classico libro del Mosse, La nazionalizzazione delle masse (Mosse [1974]2022).

25 Si pensi che le iscrizioni al partito aumentarono a dismisura quando, il 29 marzo 1928, si decise che gli iscritti al P.N.F.

avrebbero avuto la precedenza nelle liste di collocamento (più antica era l’affiliazione, più si “scalavano” le graduatorie). Nel 1930, il tesseramento da almeno 5 anni divenne requisito fondamentale per ricoprire incarichi di alto livello nel settore dell’istruzione (presidi e rettori) e dal 1933 per il concorso a pubblici uffici.

La tessera divenne poi obbligatoria nel 1937 per ricoprire qualsiasi incarico pubblico.

Dal 1938, infine, la mancanza di iscrizione al partito comportava l’impossibilità di accesso al lavoro e pesanti sanzioni per quegli imprenditori che avessero deciso di assumere un dipendente che ne era sprovvisto.

Quest’ultima “evoluzione” fu la causa dei flussi migratori di quanti, per motivi politici, non volevano allinearsi al regime ma dovevano mantenere una famiglia, e anche di iscrizioni al partito da parte di coloro che erano sostanzialmente indifferenti all’ideologia politica fascista.

Abbiamo dunque trovato una possibile concettualizzazione di ciò che fu il fascismo storico novecentesco, al di là delle varie specificità sociali e storiche dei vari Paesi in cui il fenomeno fascista si sviluppò: si trattò di un modo per addivenire alla nazionalizzazione delle masse attraverso una loro mobilitazione permanente, mobilitazione avente, tuttavia, lo scopo di passivizzarle e controllarle (dall’alto). Sottolineiamo subito che, chiaramente, tale definizione si applica in toto solo e soltanto al fascismo storico novecentesco, e non pretende minimamente di avere alcuna valenza eterna, come il non-concetto di Ur-Fascismo.

Arrivati a questo punto possiamo cercare di trarre una conclusione, per quanto inconcludente, dall’analisi si qui svolta. Dovrebbe in effetti risultare chiaro anche ai sassi, che, in definitiva, l’autore, più che riuscire a farci intendere il distante eco dell’Ur-Fascismo, sempre pernicioso e in agguato, ha ampiamente dimostrato di essere solo l’Eco della Ur-Pasquinata.

Hervé Baron

Ricercatore indipendente, email: hbgil@hotmail.it

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