Il fallimento coloniale dell’università italiana


di Mjriam Abu Samra*

Un gruppo di accademiche e accademici italo-palestinesi ha indirizzato una lettera aperta (sottoscritta da numerosi gruppi universitari) alla CRUI in merito ai bandi IUPALS, pubblicati l’8 maggio, per l’assegnazione di 35 borse di studio a studenti palestinesi. La lettera rappresenta un atto di denuncia e, al contempo, una domanda radicale rivolta all’università italiana: qual è il suo posizionamento rispetto all’apartheid israeliano, allo scolasticidio in corso in Palestina e, più in generale, rispetto al ruolo che essa stessa gioca nel mantenimento dell’ordine coloniale globale?

Di fronte a un genocidio in diretta e a pratiche di sterminio coloniale sempre più brutali, la CRUI ha scelto la via più comoda: una solidarietà umanitaria di facciata che si rivela, in realtà, espressione sadica e paternalista delle radici coloniali europee. Il bando IUPALS, che avrebbe dovuto costituire una risposta strutturata alla devastazione del sistema educativo palestinese, si è rivelato perfettamente coerente con la cultura liberale delle nostre università: tecnocratico, inaccessibile, concepito senza alcuna consultazione con le realtà accademiche palestinesi e privo di ogni riferimento al contesto materiale e storico degli studenti cui è destinato. L’intenzione dichiarata di “accogliere” si rovescia così in un dispositivo che rafforza l’asimmetria: i palestinesi non vengono considerati soggetti politici, ma vittime passive da “salvare” — purché rispettino scadenze, formulari, requisiti linguistici e codici formali propri del linguaggio accademico eurocentrico. Questi bandi sono intrisi del cinismo tipico dell’arroganza coloniale: rappresentano l’ennesimo “danno oltre la beffa” che l’università italiana infligge al popolo palestinese.

Questo approccio non è accidentale, ma strutturale. Esso rivela la logica di un’accademia liberale che, anche quando si dichiara solidale, riproduce costantemente i rapporti di potere che pretende di denunciare. La figura dominante è quella del salvatore bianco: l’istituzione europea che offre “rifugio” o “visibilità” al soggetto colonizzato, a patto che quest’ultimo accetti di aderire a un frame discorsivo predefinito, a un calendario istituzionale estraneo, a una grammatica epistemica imposta. La solidarietà si trasforma così in un gesto performativo, autoreferenziale, paternalista. Soprattutto, l’intervento salvifico prevede sempre lo stesso schema: il bando che ti permette di “uscire”, il miraggio del beneficio della civilta’ bianca, la prospettiva di essere accolto, di aver accesso nel meraviglioso mondo ordinato e civilizzato che rassicura, garantisce sicurezza, liberta’ (a tempo determinato) e opportunita’ di studio che sono impensabili nella terra di appartenenza, distrutta, colonizzata.

Ma ciò che non si prevede, pero’, insieme ad esso, e’ l’intervento strutturale, che garantisca ai palestinesi il diritto allo studio in Palestina, con un impegno a rompere la complicita’ con il progetto coloniale israeliano e la sua violenta implementazione sul territorio colonizzato. Non esiste, appunto una presa di responsabilita’, una ammissione delle colpe coloniali delle istituzioni colluse con aziende israeliane e complici nella produzione di tecnologie di sorveglianza, di armi, di sistemi di controllo ed oppressione utilizzate contro i palestinesi. Si “salvano” i pochi furtunati palestinesi che riescono miracolosamente ad accedere alle borse ed ad arrivare in Italia, ma intanto si continua a beneficiare della macchina da guerra coloniale e della distruzione che Israele implementa in Palestina tramite le collaborazioni con le sue istituzioni. Anzi, ci si assicura che non si fermi!

Questa non è la prima espressione di quella che può essere definita “solidarietà neoliberale”, basata su un performativismo di facciata che, soprattutto quando promosso da spazi di produzione del sapere, rischia di farsi non solo complice, ma protagonista della neutralizzazione della solidarietà decoloniale. È una concezione dell’impegno che si alimenta di estetica e sensazionalismo, priva di contenuti, priva di radicamento, lontana da ogni prospettiva trasformativa e di lungo periodo. Nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo assistito a una proliferazione di eventi-spettacolo dedicati alla Palestina che hanno invaso i calendari universitari. L’accademia liberale si è prodigata nell’organizzare numerosi seminari e incontri, sulla scia dell’indignazione, seguendo però uno schema ripetitivo: interventi moralistici con interlocutori scelti secondo un presunto “criterio di neutralità” che si impone come universale, e discussioni interminabili sulla “plausibilità della definizione di genocidio” secondo un diritto internazionale intrinsecamente eurocentrico e coloniale che pero’ resta, appunto il metro per “la denuncia”. Gli appelli si limitano a slogan come “non smettiamo di parlare di Gaza”, senza alcuna proposta di mobilitazione reale.

Campagne come “All Eyes on Gaza” o la recente “Ultimo giorno per Gaza” sono esemplari in questo senso: condensano l’intero arco performativo di una solidarietà costruita sull’effetto, sull’emozione e il pietismo. Iniziative che non producono radicamento né trasformazione, ma che servono a certificare la bontà morale di chi le promuove e a restituire centralità al soggetto bianco, capace di indignarsi dietro una tastiera, denunciare (sui social) e poi tornare alla normalità.

Questa mobilitazione estetica e autoreferenziale è pericolosa, perché svuota l’impegno politico del suo contenuto, riducendolo a gesto simbolico. È una solidarietà che non interroga mai l’istituzione universitaria nelle sue complicità materiali: nei fondi europei destinati a progetti comuni con università israeliane; nelle collaborazioni accademico-industriali con aziende produttrici di tecnologie militari; nei laboratori che sviluppano sistemi di controllo e sorveglianza impiegati tanto nelle frontiere quanto nell’assedio di Gaza.

Nonostante le denunce del movimento studentesco, in questo anno e mezzo nessun dipartimento ha interrotto accordi con università israeliane; nessuna università ha intrapreso un reale piano di disinvestimento; nessun laboratorio ha cessato i suoi rapporti con l’industria bellica. Anche tra gli accademici più “progressisti”, l’impegno per campagne strutturate — capaci di unire le lotte contro il precariato, contro lo sfruttamento, contro la militarizzazione, a quelle per il disinvestimento da aziende coinvolte nel genocidio — è rimasto timido e frammentario. Manca il coraggio politico di immaginare e praticare una trasformazione radicale dell’università: da istituzione integrata nel mercato neoliberale a spazio di produzione di saperi liberi e solidali.

La radice di tutto questo risiede nella struttura neoliberale dell’università contemporanea, che ha trasformato il sapere in merce, il dissenso in brand, la solidarietà in capitale simbolico. Le università si presentano come vetrine di pluralismo morale, ma nei fatti restano pienamente immerse nei meccanismi della competizione globale, della valutazione finanziaria, della riproduzione dell’ordine imperiale. Anche i bandi IUPALS si iscrivono perfettamente in questa logica.

Un’alternativa è possibile, ma richiede una rottura netta. Serve non solo la denuncia della retorica salvifica dell’umanitarismo coloniale, ma un impegno concreto — da parte di accademici e studenti — per costruire dal basso strategie di lungo periodo, capaci di trasformare il ruolo stesso delle università.

Significa, soprattutto, rompere con la logica del privilegio. Ogni appello, ogni lettera, ogni seminario, ogni bando è vano se non si accompagna a un atto di disobbedienza, se non si sottrae qualcosa al potere. Le università italiane dovrebbero interrompere immediatamente ogni collaborazione con enti complici del colonialismo israeliano; dichiarare Gaza “zona di emergenza educativa”; garantire accesso diretto ai titoli, visti, borse di studio, senza barriere burocratiche eurocentriche; finanziare progetti di ricerca condivisi non come gesto caritatevole, ma come riconoscimento di una responsabilità politica e storica.

La lettera alla CRUI è un passo importante perché rompe il silenzio e chiama le cose con il loro nome: complicità. Ma da sola non basta. Serve una mobilitazione permanente, un lavoro organizzativo interno, un piano politico collettivo. L’università italiana ha già perso troppo tempo a contemplarsi nello specchio della propria buona coscienza. Ora è il momento di scegliere: continuare ad abitare la zona grigia della complicità liberale o aprire conflitto, rompere, disertare, costruire.

L’università non salverà la Palestina. Ma può smettere di contribuire alla sua distruzione. E questo sarebbe già un buon inizio.


* Ricercatrice post-doc Marie Curie presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell'Università Ca' Foscari di Venezia e il Dipartimento di Antropologia dell'Università della California, Davis, USA. È stata coordinatrice del Renaissance Strategic Center ad Amman, in Giordania, e ha insegnato all'Università di Giordania e in istituti universitari americani ad Amman. Mjriam ha un dottorato in Relazioni Internazionali presso l’Università di Oxford, nel Regno Unito, la sua ricerca si concentra sulla politica studentesca transnazionale palestinese e anticolonialismo. È stata tra i fondatori del movimento giovanile palestinese transnazionale (PYM).

__________________________________________________________

GAZA HA BISOGNO DI TUTTI NOI: PROPRIO IN QUESTO MOMENTO

l'AntiDiplomatico è in prima linea nel sostenere attivamente tutti i progetti di Gazzella Onlus a Gaza (Gli eroi dei nostri tempi).

Acquistando "Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze dal genocidio a Gaza" (IL LIBRO CON LA L MAIUSCOLA SUL GENOCIDIO IN CORSO) sosterrete i prossimi progetti di "Gazzella Onlus" per la popolazione allo stremo.

Clicca QUI Per Seguire OGNI GIORNO le attività BENEFICHE di GAZZELLA ONLUS.

Le più recenti da OP-ED

On Fire

Lo schiaffo di Putin a Zelensky

  di Clara Statello per l'AntiDiplomatico   Putin lascia Zelensky ad aspettarlo all’altare. Oggi non sarà in Turchia per inaugurare la ripresa dei negoziati russo-ucraini che...

Fake news programmate? Dal treno di Macron al teatro palestinese: l’arte di manipolare le masse

di Francesco Santoianni Troneggia su Repubblica e sui tutti i media mainstream il “debunking” di un video raffigurante Macron che nasconderebbe una “bustina di cocaina” accogliendo...

Elena Basile - Una risposta in 6 punti all'intervista della senatrice Segre al Corriere della Sera

  Pubblichiamo la risposta resa nota sul suo canale Facebook che l'Ambasciatrice Elena Basile ha scritto ad un'intervista della senatrice Liliana Segre al Corriere della Sera----------------------di...

Pino Arlacchi - L'ora più buia dell'Europa

  di Pino Arlacchi* Ci dibattiamo nella melma di un’Europa ricaduta nell’inciviltà e nella barbarie, dove sulla bocca delle sue élite, dopo 80 anni di pace, ricompaiono...

Copyright L'Antidiplomatico 2015 all rights reserved
L'AntiDiplomatico è una testata registrata in data 08/09/2015 presso il Tribunale civile di Roma al n° 162/2015 del registro di stampa