La Corte Penale Internazionale dieci anni dopo

J. KAZADI MPIANA “ La Cour pénale internationale (CPI) et la République démocratique du Congo (RDC): 10 ans après. Etude de l’impact du Statut de Rome de la CPI en droit interne congolais », Revue internationale de droit comparé, Avril-Juin 2013, n°2, pp.419-462.
Riassunto del contributo
L’autore ripercorre il processo di adattamento del diritto congolese allo Statuto della Corte penale internazionale dieci anno dopo la sua entrata in vigore il primo luglio 2012. Occorre sottolineare che il deposito degli strumenti di ratifica da parte della Repubblica democratica del Congo (RDC), l’11 aprile 2002, ha contribuito a raggiungere il numero necessario delle ratifiche previsto per l’entrata in vigore del medesimo Statuto. Nei dieci anni, la normativa (penale) congolese è stata modificata integrandola da alcune disposizioni pertinenti dello Statuto della CPI per consentire tra l’altro ai tribunali (militari) congolesi di giudicare crimini internazionali della competenza della CPI, che essi siano commessi sia dai militari ed assimilati che dai civili sollevando non poche polemiche circa il rispetto delle garanzie processuali degli imputati. La riforma legislativa in cantiere propone di affidare in modo esclusivo la competenza sui crimini internazionali ai tribunali ordinari nel rispetto degli standards dei diritti umani.
Il processo interno di adattamento allo Statuto della CPI rimane incompiuto. Un disegno di legge specifica che recepisca tutte le innovazioni importanti e l’ammodernamento dell’assetto penale congolese in conformità allo Statuto della CPI è al vaglio di un ramo del parlamento congolese che ha espresso un parere favorevole il 25 novembre 2010, prima tappa in ottica della sua adozione come legge. Peraltro la RDC ha consentito alla CPI di funzionare e di emettere le sue prime pronunce: l’una di condanna ( Lubanga Dylo il 14 marzo e 10 luglio 2012 e l’altra di assoluzione (Mathieu Ngudjolo Chui il 18/12/2012). La cartografia della CPI rivela che la situazione nella RDC è quella che ha impegnato di più l’operato della CPI. Ne testimoniano infatti oltre le prime pronunce di primo grado aspettando l’appello i vari casi iscritti al Ruolo.
I tribunali congolesi, per motivi della situazione del conflitto armato, sono fra i primi ad aver prodotto un’ampia giurisprudenza in materia di crimini internazionali ispirandosi non soltanto all’operato dei tribunali internazionali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, ma integrando nelle loro pronunce argomentazioni tratte dalle decisioni assunte fin qui dalla CPI. Da questo punto di vista la giurisprudenza della CPI appare una fonte autorevole di ispirazione per i tribunali congolesi. Oltre alla presentazione del percorso dello Statuto della CPI nella RDC durante i dieci anni, l’autore, nel promuovere il ricorso ad altri meccanismi non giudiziari che mirano alla riconciliazione e alla pace a seguito di un conflitto armato, come il caso della RDC, si sofferma anche sui limiti dell’operato della CPI mettendo in risalto, in particolar modo, i pericoli di una giustizia a vocazione “internazionale”, ma che viene percepita, nel suo operato, come una giustizia di parte, del più forte sul debole, costruita ad uso e consumo di alcune categorie di individui. Le critiche promosse non soltanto dall’Unione africana ma anche da alcuni cultori internazionalisti tanto occidentali quanto africani offrono un’occasione da cogliere per riflettere meglio, senza pregiudizi e forzature, sul futuro della giustizia penale internazionale affinché sia non soltanto necessaria, ma anche e soprattutto percepita come credibile.
Anche se la CPI si è mossa in alcuni casi a seguito dell’iniziativa di Stati africani come la RDC, l’Uganda, il Mali, la Costa d’Avorio, va ricordato che i dirigenti di questi ultimi paesi, sottoponendo la situazione dinanzi alla CPI, sono certi di essere al riparo delle eventuali indagini a loro carico per la loro presunta partecipazione, a vari titoli, alla commissione dei crimini internazionali da parte della CPI che potrà, per beneficiare della loro cooperazione, indirizzare la sua azione nei confronti sia dei gruppi armati ostili al loro potere sia nei confronti dei loro oppositori dando l’immagine di una giustizia di disuguaglianza anche all’interno degli stessi Stati. I referral del Consiglio di sicurezza nelle situazioni del Sudan per il Darfur e la Libia contrastano con l’immobilismo di fronte all’aggravarsi della situazione in Siria mettendo in luce i limiti della dottrina della responsibility to protect apparsa più come una merce di scambio tra alcuni membri permanenti del Consiglio di sicurezza per scopo essenzialmente d’interesse nazionale aldilà delle ricadute positive sulle vite umane che si riesce a proteggere (Libia) e le vite umane che si rifiuta di salvare per interessi di parte (caso della Siria). L’iniziativa motu proprio del Procuratore presso la CPI nella situazione delle violenze post-elettorali del 2007 in Kenya ha accentuato tutte le critiche, soprattutto in Africa, che piombano sul funzionamento della CPI che vede con occhi di ingrandimento eventi assai rilevanti che succedono sul continente giustificando con argomentazioni di poco spessore la scelta di non perseguire eventi similari che succedono altrove.

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