di Pino Arlacchi | Il Fatto Quotidiano | 3 giugno 2025
Chongqing (sud-ovest cinese). Dall’alto di uno strambo edificio, costruito in orizzontale, a mo’ di ponte che unisce le cime di due grattacieli, osservo la vita che pulsa nelle arterie della più stramba, innovativa e gigantesca delle metropoli cinesi, Chongqing. Un posto dove i treni passano dentro gli edifici, le piazze stanno sospese nell’aria, e la notte i grattacieli si trasformano in una foresta incantata di luci e colori sfavillanti.
Sono al bar di uno stabile che l’illuminazione “smart” ha mutato in una smisurata tastiera di pianoforte, e sono assieme a Wang, brillante sociologo, reduci da un intenso dibattito sui rapporti tra Europa e Cina. Entrambi in vena di grandi discorsi, da sostenere con adeguato supporto alcolico. “Visto il disastro di un’Europa che tenta di nuovo il suicidio, caro Wang, mi viene in mente la famosa battuta sulla Scuola di Francoforte degli anni ’30 definita come ‘il Grand’Hotel sull’abisso’. Ma l’abisso non è quello che sta qui, sotto di noi, bensì il futuro del mio continente”.
La risposta di Wang mi colpisce per la sua acutezza anti-diplomatica. “Forse sei troppo pessimista e l’Europa non finirà col suicidarsi. Può darsi che dondoli a lungo sull’orlo dell’abisso, come la Cina dopo le guerre dell’oppio, e poi rinasca. Questo dicono le teorie sui cicli delle civiltà”.
Lo interrompo: “Lasciamo stare il Grand’Hotel, Wang, e parliamo del futuro. Secondo te, l’Europa potrebbe evitare l’abisso e proseguire dentro la stagnazione attuale. Nella quale si trova già, tra l’altro, da mezzo secolo. Possiamo dire, allora, che l’Europa ha i secoli contati. Ma cosa può succedere alla Cina nel frattempo?”.
Wang riflette: “Siete tutti sorpresi dal successo della Cina, e molti di voi dubitano della sua sostenibilità. Per secoli, l’Occidente ha creduto che il futuro gli appartenesse. Ma il futuro non è una proprietà, è una creazione. E oggi lo stiamo creando noi”.
Come? Qual è il futuro che la Cina sta disegnando, in alternativa all’Occidente, per se stessa e per il resto del mondo, vista anche la sua leadership sui paesi del Grande Sud – l’85% della popolazione e il 55% del Pil mondiale – che si consolida di giorno in giorno? Discorso epocale, sul quale tento di riflettere da una vita e con maggiore difficoltà in questi ultimi tre anni, distratto dal frastuono degli “scemi di guerra”, come li chiama Marco Travaglio, che affollano il circo mediatico-politico italiano. Ho iniziato comunque a tratteggiare su questo giornale una narrativa del “futuro con caratteristiche cinesi” accennato dal mio collega Wang.
Non si può parlare del futuro della Cina senza tenere presente il suo passato. Il futuro cinese ha un cuore antico. È la continuazione di un progetto di governo avanzato 4 secoli prima di Cristo da una aristocrazia intellettuale assolutamente unica, che lo ha gestito in prima persona sotto l’autorità di un imperatore formalmente assolutista, ma subalterno in realtà al potere dei suoi più alti dignitari-filosofi chiamati shi, literati in Cina e “mandarini” da noi. Personaggi come Confucio, Mencio, Sun Tzu e vari altri in grado di produrre capolavori della letteratura, della scienza e dell’arte di governo.
La quasi indistruttibilità del Celeste Impero – durato oltre due millenni – si spiega col non esser stato un’unità amministrativa, economica e militare come le altre. Cioè un patriziato alla testa di una macchina predatoria come l’antica Roma e gli imperi coloniali dell’età moderna. Il suo elemento distintivo è stato il suo sostrato filosofico e culturale, profondamente avverso alla guerra e alla violenza, dedito all’arte e alla scienza di governare il popolo.
I literati cinesi non erano solo pensatori di alta classe o dei semplici consiglieri del principe. Erano i dirigenti pubblici, i ministri, gli strateghi e gli amministratori che reggevano le sorti dello Stato più ricco, progredito e longevo del pianeta. La loro leadership si basava sulla loro capacità di egemonizzare la società in senso gramsciano e radicalmente anti-machiavellico. Stella polare delle loro politiche era la conservazione del potere tramite la conquista dei cuori e delle menti delle masse con atti di buongoverno flessibili e lungimiranti. Il celebre detto di Mencio, “quelli che conquistano il cuore della gente conquisteranno il mondo”, è di sapore squisitamente gramsciano. Ma Mencio è nato nel 371 a. C..
La Cina imperiale e quella socialista hanno in comune la caratteristica esclusiva di non essere il prodotto delle cose, delle circostanze più o meno casuali della storia, ma dell’intelletto umano. Sono due manufatti complessi, esistiti prima di tutto nella testa dei leader che li hanno concepiti. E che Gramsci, che non sapeva quasi nulla della Cina, avrebbe chiamato “intellettuali organici”.
Il progetto comunista che ha vinto la rivoluzione del 1949, e i neo mandarini che hanno guidato la Cina fino a oggi, sono parte di una rinascita dell’anima profonda dell’impero, come riconosciuto dallo stesso Pcc nel richiamo a Confucio, il supremo dei literati, accanto a Marx come padre intellettuale e morale della Cina di oggi.
In effetti, senza Marx e Confucio si capisce poco della Cina, e del tema che stiamo trattando, che è il suo futuro. L’imprinting progettuale millenario ha dotato il paese di una spiccata abilità nel programmare l’uso delle risorse. Una capacità di calcolo e di gestione dimostratasi superiore ai processi di mercato. I mandarini erano in grado di battere il computer più potente della storia del loro tempo, che era il mercato, allocando risorse secondo i bisogni della società, tassando poco, spendendo poco per l’amministrazione centrale, pochissimo per l’esercito e molto per contrastare i pericoli più grandi: carestie e alluvioni.
Confucio consigliava di lasciare liberi di agire “i piccoli uomini” dediti all’accumulazione dei beni materiali e del denaro. Bastava tenerli al loro posto (molto basso, al di sotto dei contadini) nella gerarchia sociale. I loro soldi, poi, erano benvenuti come fonte aggiuntiva di introiti dello Stato.
Il primo a notare come in Cina il mercato fosse uno strumento del governo e non viceversa, e come ciò garantisse un percorso “naturale” dello sviluppo economico contrapposto alla strada “innaturale” imboccata dal capitalismo europeo, fu proprio Adam Smith. Sì, proprio lui, passato impropriamente alla storia come il teorico della “Mano invisibile” del mercato. Smith consigliava ai sovrani europei del ’700 di seguire il modello di sviluppo della Cina, da lui ritenuta il paese più prospero del pianeta grazie alla mano ben visibile dello Stato.
I comunisti cinesi – dopo la rivoluzione, e dopo la famosa svolta riformista di Deng Xiaoping nel 1978 – non hanno fatto altro che inventare e praticare una versione socialista delle politiche economiche non capitalistiche dei literati confuciani.
Dopo un paio di decenni di tentativi ed errori anche tragici, come il Grande Balzo in Avanti del 1958-60, la Cina ha imboccato la strada di un boom di lunga durata che persiste tuttora e che ha prodotto – in virtù dell’uso confuciano del mercato e di una pianificazione sofisticata dell’economia – risultati imponenti: la fuoriuscita di 850 milioni di persone dalla povertà in soli 30 anni e il conseguimento di un moderato grado di benessere per l’intera popolazione. Il ceto medio cinese ha ormai superato il mezzo miliardo di individui.
Qualunque sia il futuro della Cina potete star certi che non sarà breve...
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