Butac, da "cacciatori di bufale" a "la notizia è vera ma la dovete scrivere come diciamo noi"

29 Gennaio 2021 15:00 Antonio Di Siena

Sono finito su Butac e devo ammettere che la cosa mi ha parecchio lusingato.

Sia per l’attenzione ricevuta sia, soprattutto, perché il sito dei presunti “sbufalatori” non è riuscito a smentirmi. Ovviamente.

Ed è proprio questo il problema.
Ma come, vi occupate di bufale, vi scomodate a pescare un mio pezzo per L’Antidiplomatico e manco mi sbufalate?
Vi confesso che sono un po’ deluso.
La ragione di tanta gratificante attenzione da parte di butac, infatti, non sta tanto nel fatto che ho diffuso una bufala (e non potrebbe essere diversamente dato che la notizia l’ho presa dalla Bild e verificata su Die Welt). Anche perché, per loro stessa ammissione, “la notizia è vera”. Ma in quanto, sempre secondo loro, non racconto bene le cose.
Il tema, manco a dirlo, sono le carceri tedesche per i soggetti che violano le restrizioni covid, quelle che ho paragonato ai lager. Secondo la redazione di butac un’esagerazione di cui dovrei vergognarmi.
Ma andiamo con ordine.
Il ridicolo tentativo di banalizzare il problema poggia su due argomenti.
Il primo tende a giustificare le carceri tedesche muovendo dal presupposto che “in Germania si rispettano le regole”. Una litania propalata ad ogni piè sospinto che mira ad azzerare il senso critico del lettore. Perché - al netto del fatto che pure durante il nazismo si “rispettavano le regole” - c’è una cosa che sfugge ai nostri prodi: ammesso (e non concesso) che il covid sia davvero più pericoloso della peste nera, ci sarebbero moltissimi metodi alternativi per tutelare la sanità pubblica e limitare la pericolosità sociale dei nostri moderni untori del coronavirus. E il nostro ordinamento penale ce ne suggerisce diversi e molto efficaci che - pur ritenendoli assolutamente spropositati rispetto alla finalità - sarebbero di gran lunga meno restrittivi e lesivi della dignità di quello che a tutti gli effetti resta pur sempre un malato (o no?) rispetto a uno stramaledetto carcere circondato da filo spinato e sorvegliato da guardie penitenziarie.
Ma mi rendo conto che parlare di teoria del diritto penale con gente assolutamente impreparata al tema - e che si occupa di trattare argomenti delicatissimi “un tanto al chilo” (nomen omen) - possa essere un tantino complicato. Se non addirittura inutile.
Il secondo è che butac prende per buona la narrazione dominante (cosa che, per inciso, non è una novità) che ci racconta ogni giorno come sia assolutamente necessario contenere il contagio. In tutti i modi, con ogni misura, costi quel che costi.
Ed eccolo il problema principale.
Perché il loro approccio miope e acritico altro non fa che fungere da amplificatore a una campagna mediatica martellante che punta a far tollerare ad una popolazione impaurita, terrorizzata e stremata, qualsiasi misura possibile. Anche le peggiori porcate antidemocratiche, come il privare i cittadini restii alle vaccinazioni del diritto alle cure o al suffragio universale. Precondizione necessaria che fa da anticamera alla barbarie, nel nostro caso incarcerare i “malati” anziché curarli adeguatamente. Possibilmente a casa o, al massimo, negli ospedali.
Perché forse i nostri solerti sbufalatori non lo sanno, ma gli ebrei non sono certo finiti nei lager con la facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua.
Non fu solamente la loro presunta “diversità” a giustificare le delazioni e gli arresti. Per trasformare il vicino di casa in un nemico, il compagno di banco in un pericolo pubblico, infatti, fu necessario costruire una poderosa macchina di propaganda che poggiava non soltanto su motivazioni economiche (il complotto giudaico) ma anche su basi saldamente “scientifiche”. Ovviamente del loro tempo.
La teoria della razza in biologia e antropologia (con sfumature diverse), infatti, era comunemente accettata anche al di fuori dei confini dei Reich (ad esempio negli Stati Uniti). A convincere i cittadini tedeschi a spedire a cuor leggero i loro concittadini ebrei nei lager (i così detti konzentrationslager, i campi di detenzione, quelli di sterminio erano denominati vernichtungslager) contribuì notevolmente la rappresentazione degli israeliti come appestati, portatori e diffusori di infezioni e malattie. Di virus pericolosissimi per la società.
Come ci insegna Bauman, quindi, alla base dei lager ci fu anche quella che venne presentata come una sorta di necessità “sanitaria”. Restrizioni mirate alla tutela della sanità pubblica e quindi del popolo. Un’operazione di “igiene politica” che rese molto più agevole al nazismo perpetrare l’orrore dello sterminio. Non solo nei confronti degli ebrei ma anche, ad esempio, dei disabili e di chiunque altro potesse contaminare la “purezza” del popolo tedesco.
E il fatto che questo stesso, agghiacciante, riflesso pavloviano (seppur con tutti i dovuti limiti e distinguo del caso) si sia ingenerato nelle popolazioni contemporanee colpite dalla pandemia, dovrebbe destare più di qualche allarme.
Sarebbe fin troppo agevole, infatti, ricordarsi di come - in piena emergenza - i cittadini italiani anziché prendersela con gli ospedali e le grandi industrie che obbligavano i propri dipendenti a lavorare in assenza di adeguate misure di prevenzione (e sotto minaccia di licenziamento) si auguravano l’arresto dei runner. Come se l’avanzata del virus dipendesse dalla loro corsetta in solitaria.
Di questo si dovrebbe parlare, non di altro.
Soprattuto se si ha la velleità di ergersi ad autoproclamati custodi della verità. Di come, cioè, una gestione assolutamente inadeguata dell’emergenza sanitaria (incapace finanche di garantire un tracciamento efficace), sia finita per far accettare di buon grado alla popolazione civile l’ipotesi di misure coercitive spropositate, fortemente lesive della libertà personale, e assolutamente inutili. Il cui unico effetto - in una sorta di eterogenesi dei fini (e voglio essere buono) - è quello di far scivolare la società verso un modello bio politico iper-pervasivo. Un rischio concreto, tangibile, prontamente denunciato anche da importanti filosofi come Giorgio Agamben, mica dal sottoscritto.
Perché una pandemia è un evento complicato, che interessa moltissimi aspetti della convivenza civile e della democrazia, e i cui rivoli sono tali e tanti da obbligarci alla complessità del ragionamento.
La semplificazione, o peggio l’approccio acritico appiattito sulla narrazione dominante, da sola non può - e non deve - bastare. Al contrario risulta molto pericolosa.
E chi la ritiene metodo sufficiente per approcciarsi e risolvere un problema che si sta manifestando in tutta la sua drammaticità (e con pesanti risvolti anche di natura psicologico/psichiatrica) dovrebbe fermarsi a riflettere.
Diversamente ci si riduce al ruolo di pappagalli di una narrazione ad usum delphini. Un ruolo che stride fortemente con lo stare genuinamente dalla parte della verità.
Unica condizione di cui ci si dovrebbe davvero vergognare.

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