Camici bianchi e camicie nere: sulle responsabilità (taciute) dei medici

30 Marzo 2021 15:00 Antonio Di Siena

Mi chiedo se gli italiani che si sentono ripetere da un po’ di tempo la storia secondo cui “il problema non sono i posti letto in terapia intensiva ma il personale sanitario che manca” abbiano ben chiaro il trucco dove sta.
Al netto del fatto che la penuria di posti letto è dannatamente reale - perché l’Italia risulta ben al di sotto della media OCSE con 3,2 posti letto ogni mille abitanti contro il 4,7 degli altri paesi e parecchio lontana da Giappone (13,1), Corea del Sud (12,3) e Germania (8) - la questione della carenza di personale va inquadrata per bene.
Altrimenti la denuncia (di per sé sacrosanta) rischia di restare fine a sé stessa, diventando uno dei più fulgidi esempi di benaltrismo.
Il nostro Paese, infatti, è secondo nell’UE - dopo la Germania - per numero complessivo di medici, 240mila. Ma con un rapporto medico/popolazione molto meno adeguato (fonte Eurostat): 4 dottori ogni mille abitanti, decimo posto in classifica dopo Grecia, Spagna, Portogallo, Lituania... Con l’aggravante della più alta percentuale di personale di età superiore a 55 anni. Nel 2016 era il 54% del totale contro il 13% del Regno Unito, per dire.
Il fronte infermieristico, poi, è messo ancora peggio perché registra un dato ridicolo: 5,5 infermieri ogni mille abitanti. Dato in diminuzione su base decennale e parecchio inferiore alla media OCSE che è di 8,9.
Uno stato di cose che, però, non è mica caduto dal cielo come la pioggia (e ha responsabilità molto precise). E denunciarlo adesso, oltre che intempestivo, puzza di goffo tentativo di salvare faccia e rendite di posizione.
Perché quelli che oggi puntano il dito contro la carenza di personale sono gli stessi che per decenni hanno governato (dall’interno e dall’esterno) il sistema sanitario.
In primis i governi, la politica e i dirigenti amici degli amici che hanno attuato e avvallato tagli sistematici e lineari al SSN (meno 37 miliardi in dieci anni). Senza dimenticare la categoria dei medici (i nostri “eroi”) che, lungi dall’aver mai seriamente denunciato austerità e chiusure, ha costantemente difeso (o taciuto e tollerato) un sistema fatto di rigidissime regole in entrata (i test d’ingresso alle facoltà) e ottocenteschi meccanismi di accesso ai corsi di specializzazione, prevalentemente basati su un sistema molto più baronale che meritocratico. E che ha spinto decine di migliaia di giovani medici a emigrare all’estero in cerca di lavoro.
Un esodo di massa - che ha impedito il ricambio, sottodimensionando enormemente la sanità pubblica - celebrato dalla politica, in un emblematico esempio di bipensiero orwelliano, come “esportazione” di un’altra delle eccellenze italiane.
Un fenomeno sotto gli occhi di tutti, tardivamente e maldestramente denunciato dall’Ordine dei medici soltanto nel 2019 quando ha finalmente deciso di rivendicare più risorse per le specializzazioni. Ben guardandosi, però, dal mettere in evidenza le storture del sistema di formazione e selezione, la mancanza di infermieri e, soprattutto, le ragioni politico-economiche alla base delle carenze.
E allora, visto che in quest’anno di pandemia i medici hanno deciso di invadere il campo della politica - pretendendo di dettarne la linea manco fossero gli unici soggetti dotati di capacità cognitive - mi chiedo dove fossero prima.
Quando l’OCSE ammoniva l’Italia dal prestare estrema attenzione alla combinazione di invecchiamento diffuso della popolazione e contestuale carenza di personale. Una condizione potenzialmente letale per il sistema sanitario e a cui “potrebbe non essere in grado di far fronte”. Come poi si è puntualmente verificato a causa di un banalissimo virus.
Dov’erano questi esperti e moralizzatori dell’ultim’ora quando per decenni si andava ripetendo che lo Stato è come una famiglia. Che il problema era il debito pubblico. Che il pareggio di bilancio e i parametri europei erano cosa buona e giusta. Che considerare il SSN come un’azienda che non può funzionare in perdita equivaleva a modernizzarlo. Che chiudere gli ospedali e ridurre i posti letto significava renderlo più efficiente? Non di certo (se non una sparuta e coraggiosa minoranza) al fianco di chi queste cose le denuncia da anni.
Aver taciuto per tutto questo tempo il doloso, lucido, scientifico e sistematico smantellamento della sanità pubblica ha davvero attentato alla vita e al diritto alla salute dei cittadini. Non di certo le scuole aperte e le passeggiate in zona gialla, come più di qualche novella star televisiva in camice bianco ama ripetere per nascondere l’ignavia di un silenzio pluriennale.
Quindi, data la gravità della situazione complessiva, anziché ciurlare nel manico sarebbe il caso di dire chiaro e tondo il problema dove sta.
Se non ci sono abbastanza soldi lo Stato non può funzionare. Sanità compresa.
Per questo mancano il personale, i posti letto, i macchinari ecc. ecc. Per questo i medici sono costretti a turni massacranti in strutture fatiscenti e senza adeguato materiale di protezione. Per questo si è costretti a chiudere la gente in casa e non curare altre patologie non covid, per quanto gravi esse siano.
Perché nel nome del folle progetto europeo ci hanno scippato il potere di finanziare adeguatamente la spesa pubblica. E quindi il Servizio Sanitario Nazionale. Trasformando lo Stato in un mendicante costretto a elemosinare e dipendere dai privati e incapace di sviluppare finanche un vaccino in autonomia. A differenza della piccola e povera Cuba.
Ragion per cui, se salvare vite è davvero l’obiettivo (non solo oggi ma pure domani e dopodomani), e si vuole davvero essere incisivi nel dibattito sulla pandemia, la si smetta di raccontare verità parziali e di comodo, e si abbia il buonsenso di mettere in discussione l’intero modello. La dottrina liberista che non ci darà mai la concreta possibilità di avere una sanità pubblica d’eccellenza in grado di affrontare efficacemente non solo l’ordinaria amministrazione. Ma soprattutto le emergenze.
Diversamente si chiederanno agli italiani ulteriori dolorosissimi sacrifici (e li si seguiterà a incolpare ingiustamente) per non risolvere il problema alla radice. Ma esclusivamente per mettere le pezze a un problema annoso che non si ha il coraggio di affrontare (o magari comprendere) in tutta la sua complessità.
Altrimenti, e per quanto contro intuitivo possa sembrare - non si fa medicina. Si fa politica, almeno indirettamente. Esattamente come quei docenti, accademici e scienziati con la tessera del PNF in tasca che furono pronti a sacrificare tutto e tutti, scienza compresa, pur di salvare sé stessi.
Con buona pace di tutti gli altri.

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