Effetti devastanti del maltempo e ricerca di soluzioni: una riflessione

È cronaca di questi giorni l’effetto disastroso dei stravolgimenti climatici sulle nostre città, nei paesini e nelle strade di montagna, ma anche nelle zone pianeggianti. Nulla e nessuno sembra potersi mettere al riparo dalla furia della pioggia e del vento, quando, dopo un’estate lunga, torrida e tra le più calde dell’ultimo secolo, l’autunno decide di bussare alle nostre porte.

Poco importa che le amministrazioni locali siano tra le più attente e intransigenti, rispettose dell’ambiente e attente all’impatto di ogni singola opera, o tra le più corrotte ed inclini a qualsiasi tipi di opera di cementificazione e disboscamento. Anche le regioni più virtuose si trovano a leccarsi le ferite, dopo le intense piogge che i primi giorni di novembre hanno colpito il nord d’Italia.

A maggior ragione, laddove la cementificazione, l’urbanizzazione selvaggia e l’industrializzazione del territorio continuano a levare suolo o a danneggiarlo, per sostituirlo con costruzioni, centri commerciali, strade, ferrovie ad alta velocità, gli effetti di questo “anomalo” mal tempo si fanno sentire in modo ancora più tragico.

Deforestazione e cementificazione: tutti stanno a guardare!

E l’autunno è appena iniziato e, per ora, ha fatto sentire i suoi effetti solo al centro nord. Non appena le perturbazioni riusciranno ad arrivare anche al sud della penisola, i titoli dei giornali si riempiranno nuovamente di allarmi, tragedie, conteggi dei danni in milioni di euro e tante altre nefaste conseguenze.

Ma saranno, quasi sempre, lacrime di coccodrillo: quanti, infatti, davanti all’opportunità di avere una strada nuova che accorci il tempo di percorrenza per andare dal punto A al punto B, leverebbero la propria voce di dissenso a difesa dell’ambiente? Quanti, di fronte all’opportunità di avere una casa in un’area di charme (che sia al mare, in montagna o al lago) si tirerebbero indietro, pensando all’impatto che il cemento ha avuto o avrebbe sull’area circostante, già a rischio idrogeologico? Sembra che il problema non ci riguardi mai direttamente, che gli effetti delle nostre singole azioni non ricadranno mai su di noi e nemmeno sulle generazioni a venire.

Se, poi, di mezzo ci sono gli interessi milionari legati al business delle costruzioni, dei commerci, dei trasporti, allora, il senso del discorso diventa ancora più evidente. Sull’intero territorio nazionale, tra il 2021 e il 2022, la cementificazione è aumentata del 10% e anche se sono le regioni a più alta concentrazione di industrie ad avere il triste primato (Lombardia, Veneto), al terzo posto troviamo la Campania e, non lontane, Emilia Romagna, Puglia, Lazio, Friuli Venezia Giulia, Liguria e Toscana.

Morti e devastazioni, nonostante l’allarme lanciato dalla scienza

Gli allarmi che alcuni scienziati lanciano sul rischio idrogeologico e contro l’inquinamento e il consumismo sfrenato, le loro iniziative di sensibilizzazione sugli effetti dell’utilizzo inusitato delle automobili private, sulla produzione di anidride carbonica, sui gas serra e sul riscaldamento climatico sembrano interessare solo pochi soggetti al mondo. E questi stessi soggetti, troppo spesso, sono considerati degli invasati, senza alcun riguardo per i progressi che la tecnologia ci ha consentito di fare negli ultimi decenni. Come se “tecnologia” potesse rimare solo con “distruzione del pianeta” e non potesse, invece, essere uno strumento nelle mani degli uomini per proteggere la Terra su cui tutti noi viviamo.

Intanto, però, non c’è anno che passi senza che il maltempo porti dei lutti nelle case degli italiani: quest’anno, per ora, è stata la volta della Toscana, che ha pagato un tributo di sette vittime, che si aggiungono alle 17 dell’Emilia Romagna del mese di maggio; nel 2022, il bollettino aveva registrato 13 morti a Senigallia e 12 a Ischia. E che dire dei danni alle “cose”? Miliardi di euro ogni anno, a cui si aggiungono quelli inestimabili fatti all’ambiente (basti pensare ai 14 milioni di alberi caduti per la tempesta Vaia nel nord est dell’Italia).

Non c’è più tempo!

C’è chi, come il climatologo Luca Mercalli, da sempre particolarmente attento a questa tematica, ci dice che, di questo passo, la situazione non potrà che peggiorare; e lo sta dicendo uno scienziato, non “una Greta Thunberg” che qualcuno potrebbe considerare come “non sufficientemente qualificata” per parlare (anche se l’ex presidente degli Stati Uniti si era in realtà espresso in modo molto più pesante).

Le estati saranno sempre più calde e torride, sarà sempre più facile raggiungere i 40 gradi nelle città. Per resistere molti più condizionatori saranno accesi per più ore al giorno, il che incrementerà il consumo e la produzione di energia elettrica, aumentando così la produzione di calore nel mondo. E l’obiettivo di ridurre il riscaldamento climatico a 1,5°C da qui al 2030 contenuto nell’accordo di Parigi del 2016 sarà sempre più lontano e irraggiungibile.

Una soluzione, secondo Mercalli, potrebbe essere quella di rivalutare l’ambiente montano, come luogo di vita, e non solo di vacanza.

Se è vero che i ghiacciai sulle Alpi si stanno sciogliendo, è altrettanto vero che l’incremento della temperatura si soffre di meno in montagna. Non è un caso, infatti, che il numero di italiani che trascorrono il periodo estivo in montagna è aumentato.

Un’ipotesi: la vita in montagna. Per tutti?

Il climatologo Mercalli, però, va ben oltre: lui punta alla fascia della media ed alta quota da abitare per tutto il periodo dell’anno. Vecchi masi e costruzioni abbandonate potrebbero essere recuperati per ospitare, dodici mesi su dodici, famiglie e professionisti, sfruttando le possibilità offerte tanto dai restauri ad impatto zero e con certificazione CasaClima (cappotti, pannelli fotovoltaici, pompe di calore, …), quanto dalla tecnologia (la diffusione di internet anche in montagna consentirebbe il telelavoro per tante categorie professionali, oltre all’accesso a varie attività fra cui nuovi siti di gioco online etc.).

Un orticello e un piccolo allevamento di animali di piccola e media taglia potrebbe fornire un parziale sostentamento, certamente da integrare; gli spostamenti sarebbero ridotti al minimo indispensabile; la qualità della vita in generale (non solo per la migliore qualità dell’aria) sarebbe più elevata. Tutto vero e molto bello, oltre che ecosostenibile e dotato di un innegabile fascino bucolico.

Ma una domanda ci assilla: se tutti coloro che hanno l’opportunità di lavorare da remoto si spostassero a vivere al di sopra dei 1.000 metri di altitudine, cosa diventerebbero le montagne? Quali folle abiterebbero sulle Alpi e sugli Appennini? E, viceversa, se si spostasse in montagna solo un numero ridotto di abitanti delle città, in modo da non sovraffollare le nostre catene montuose, questo sarebbe sufficiente per rallentare il riscaldamento climatico?

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