L'"Election pass" di Felicia Moyo vi sembra ora irrealizzabile?

07 Ottobre 2021 09:00 Edoardo Laudisi

L’economista zambiana Dambisa Felicia Moyo è una stella nascente del panorama globale. Nata a Lusaka in Zambia nel 1969, emigrata negli Stati Uniti, laurea in chimica, master in Business Administration a Harvard e dottorato di ricerca in economia a Oxford, ha lavorato per due anni alla Banca Mondiale, otto anni alla Goldman Sachs (like our Marios D&M) e poi a un’infinità di banche d’affari e corporate entreprises prima di diventare una scrittrice e ricercatrice internazionale.

Nel suo ultimo libro, Edge of Chaos: Why Democracy Is Failing to Deliver Economic Growth - and How to Fix It, uscito nel 2018, affronta il problema del declino economico delle democrazie liberali. La premessa è un classico: senza crescita il capitalismo genera disequilibri che producono diseguaglianze economiche che a loro volte minano la stabilità dei paesi. Oggi più che in passato la crescita è minacciata dalla scarsità di risorse, emergenza climatica e aumento del debito.

Tutti problemi che hanno bisogno di una strategia a lungo termine per essere affrontati e risolti. Il problema è, scrive Felicia Moyo, che i politici ragionano a breve termine, essendo il loro orizzonte temporale l’elezione successiva e non la salvezza dell’ecosistema. Desiderosi solo di vincere le prossime elezioni, i politici prendono solo quelle decisioni che possono massimizzare il loro consenso tra gli elettori scartando invece quelle necessarie alla crescita e all’ambiente, perché impopolari.

Quindi per salvare crescita, ambiente e società, la democrazia va riformata.

Cambiando la classe politica, penserete. No, cambiando gli elettori. Il modo per farlo passa attraverso il sistema del weighted voting, il voto ponderato in cui il classico “una testa un voto” vale a seconda del tipo di testa. Se è quella di un elettore pensante, con una cultura dimostrabile carte alla mano e un determinato QI, allora il voto ha un peso, altrimenti è leggero come una piuma. Il modo per valutare la testa pensante potrebbe essere, scrive Felicia Moyo, un test oppure, se si vuole semplificare, le qualifiche scolastiche o la professione svolta. Quello che bisogna assolutamente fare, conclude la new global star del neoliberismo, è “ridurre l’impatto sul voto di apatici e disinformati che farebbero sicuramente scelte sbagliate.”

Scelte sbagliate, cioè scelte che non piacciono a Felicia e ai suoi colleghi.

Ricapitolando il Felicia pensiero, se sei un professionista o un professore universitario, e quindi se appartieni a una certa classe, il tuo voto vale, diciamo, dieci, se invece sei un manovale o peggio ancora un disoccupato, vale uno. Una specie di election pass che ci riporta ai tempi del caro vecchio Marchese del Grillo.

Prima dell’era Covid il certificato educazionale per votare sarebbe stato irricevibile e nessuno, a parte qualche fanatico aspirante despota, avrebbe ostato prenderlo in considerazione. E in effetti quando uscì, il libro di Felicita fu criticato addirittura dalla sinistra liberal. Ma oggi, grazie ai progressi fatti dai governi con il green pass e al colpo mortale inferto ai diritti fondamentali, potrebbe essere un’idea accettabile. Con il giusto framing che addestri i cittadini ad accettare l’idea che occorre votare bene altrimenti vince Brexit, altrimenti vincono i no vax, altrimenti vincono i no euro, altrimenti vincono i “non facciamo niente per salvare l’ambiente”, altrimenti vincono i vecchi ignoranti populisti, altrimenti vincono i Trump, il concetto potrebbe passare perfino tra gli applausi dei sudditi, convinti di andare verso un mondo migliore dove la schiavitù è libertà.

Dambisa Felicia Moyo con le sue relazioni internazionali, le militanze nelle cattedrali del bel mondo globalizzato, le carriere sempre ai vertici delle più rinomate banche di affari, rappresenta l’élite dell’élite. La sua idea di elitarismo non è una novità, se ne parla dai tempi della Repubblica di Platone, e non è nemmeno un fatto isolato. Il concetto di una nuova aristocrazia mondiale che si autoincarichi di risolvere direttamente i problemi del mondo senza passare dagli stati sovrani si fa sempre più strada in certi ambienti. In questo nuovo mondo la democrazia è un intralcio perché, dando voce a tutti, genera imprevisti che un tempo si chiamavano libera espressione della volontà popolare ma che oggi vengono visti come un errore di sistema. Eppure, nonostante le sue lauree, i suoi dottorati, la militanza nel gotha della finanza, Felicia non sospetta che c’è un paese che ha risolto il problema del voto utile in modo molto più brillante. Come sempre quando si tratta di esplorare il peggio, l’Italia diventa avanguardia.

Invece di pesare i voti, che sarebbe comunque una fatica e potrebbe anche andare male, da noi si è deciso semplicemente di estinguerli.

In pochi decenni una nazione con un’affluenza alle urne da percentuali bulgare oggi arriva a fatica al 50% di affluenza. Significa che quasi la metà degli aventi diritto al voto non trova rappresentanza.

In altre parole, significa la fine della democrazia rappresentativa. Il metodo per arrivarci è questo: quando un risultato elettorale non è gradito all’establishment, si interviene minandolo con vincoli esterni e proposte non rifiutabili ai suoi membri più deboli, che abbondano. Si genera così una crisi controllata, si agita ma non si mescola, si forma una nuova coalizione di matrice opposta con elementi raccogliticci, et voilà, si fotte l’elettore, il quale capendo l’antifona da quel momento si terrà alla larga dalle urne. Troppo complicato? Mica vero, è un po' come guidare un’auto con cambio manuale, basta impratichirsi e poi si va alla grande.

Certamente meglio che mettersi a pesare voti uno a uno.

Per gli scopi che si prefigge Felicia, cioè trasformare la democrazia in una Repubblica degli illuminati, la via italiana dell’estinzione del voto è certamente migliore rispetto a quella del voto ponderato. Più pratica, più efficace, più diretta, sicuramente più fluida e discreta. Una eutanasia invece che un omicidio, neanche te ne accorgi e sei già in tecnocrazia. E da lì a un regime a regola d’arte poi, è un passo.

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