Giornata della memoria vittime di mafia. Pino Arlacchi: "La mia esperienza"


di Pino Arlacchi

In questa occasione, non trovo di meglio che offrire ai miei amici alcuni squarci del mio vissuto degli anni 1992-93, anni di stragi e di rivolta antimafia rievocati più ampiamente nelle ultime pagine del mio volume “Giovanni ed io. In prima linea con Falcone contro Andreotti, Cosa Nostra e la mafia di Stato”.

Capaci e via D’Amelio mi hanno segnato. Fino ad allora il mio impegno contro la mafia era consistito nel fabbricare cartucce per i fucili altrui. Ma avevano ragione Borsellino e Manganelli. Non potevo più essere solo un professore. Il fucile dovevo imbracciarlo direttamente. Mi gettai con tutte le mie forze nell’organizzazione di una controffensiva in grande stile, che partì nei giorni successivi alla fine di Borsellino e arrivò molto vicino ad annientare Cosa nostra.

Tra via D’Amelio e la primavera del 1994 l’azione antimafia dello Stato italiano ha raggiunto la sua massima incisività storica. Fu un momento magico.
Oltre duecento capimafia furono arrestati e inviati nelle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara, noleggiando appositi traghetti. Nella Dia mi concentrai sull’intelligence tattica e strategica. Creai il sistema di classificazione dei gruppi mafiosi italiani, le «mappe» usate oggi dalle forze dell’ordine. Lavorai alla definizione degli obiettivi da colpire in via prioritaria con le indagini e gli arresti.

Scrissi la relazione sull’attività della Dia che il ministro Scotti presentò in Parlamento, e mi tolsi così la soddisfazione di infrangere un tabù. Era la prima volta che in un documento del governo italiano si leggeva che mafia e politica erano legate da un costante e intimo rapporto.

Durante questa stagione si colpì l’intero spettro delle complicità a ogni livello. Ciò fu reso possibile dallo scenario più ampio, propizio come non mai a questa quasi-rivoluzione. In quegli anni tramontava la Prima Repubblica, e nel peggiore dei modi, travolta dagli scandali. Nel corso del 1992 si era dispiegata, accanto all’antimafia nel Sud, una forza parallela della legalità radicata nel Nord, nella Procura della Repubblica di Milano. L’azione del pool Mani pulite colpiva i ranghi più alti del malaffare politico, e impediva ai protettori romani della mafia di abbozzare un contrattacco.

L’offensiva contro la politica corrotta e i complici delle mafie fu imponente. Furono incriminati per reati gravi quattro ex presidenti del Consiglio e due ex ministri dell’Interno. Altri dieci ex ministri furono messi sotto accusa per corruzione. Un terzo dei parlamentari nazionali in carica e la metà dei consiglieri regionali siciliani finirono sotto inchiesta. E parecchi di loro per complicità con la mafia. Oltre quattromila politici di diversi livelli furono denunciati per malversazioni varie.

Il pressing anticorruzione e antimafia non si fermò davanti a nessuna soglia istituzionale. Il Csm aprì in poco tempo settantatré procedimenti disciplinari contro magistrati, trasferendone undici. Tre procuratori della Repubblica furono arrestati. Alti dirigenti dei servizi di sicurezza furono messi sotto accusa e condannati oppure obbligati a dimettersi.

Gli avvenimenti si susseguivano a un ritmo che in certi momenti mozzava il fiato. Nel giro di tre giorni, per esempio, dal 27 al 29 marzo 1993, due diverse procure inviarono quattro avvisi di garanzia a personaggi ritenuti intoccabili, facendoli cadere dal loro piedistallo: Andreotti, Gava, Cirino Pomicino e Carnevale. Sei giorni dopo lo stesso trattamento veniva riservato ad Arnaldo Forlani. Un altissimo suggello morale alla rivolta in corso arrivò da papa Giovanni Paolo II, il quale, durante la sua visita pastorale in Sicilia del maggio 1993, pronunciò parole di fuoco contro la violenza mafiosa.

È difficile affermare con certezza se le stragi del 1992 siano state o no un errore fatale di Cosa nostra. Falcone e Borsellino avevano già compiuto il massimo dei danni? Oppure avrebbero completato l’opera dando il colpo di grazia agli uomini d’onore?

La scelta stragista, in realtà, fu una strada obbligata. Dal punto di vista dei vertici della mafia aveva una logica cogente. Le condanne del maxiprocesso avevano messo Riina e soci di fronte al problema di non possedere più alcuna protezione politica. I loro referenti non avevano avuto la forza di mantenere le promesse di impunità, ed erano stati per giunta smascherati e messi nel mirino delle procure e dell’opinione pubblica. Se i capi di Cosa nostra avessero adottato la strategia del calati juncu ca passa la china («piegati, giunco, finchè passa la piena»), si sarebbero dovuti rassegnare a passare in carcere il resto dei propri giorni.

Il terrorismo mafioso, la sfida frontale allo Stato lanciata attraverso una stagione di attentati, poteva essere la strada per negoziare – se non un ritorno all’antica collaborazione con le istituzioni – almeno una decente coesistenza con esse.
L’approdo finale verso lo scontro cruento fu dovuto a due fattori.

Il primo fu l’assenza di interlocutori credibili dal lato dello Stato con i quali intavolare una trattativa che rendesse superfluo il ricorso alle stragi. Sottolineo questo punto perché per oltre un decennio i media hanno parlato di incontri, negoziati, «papelli» e accordi tra esponenti mafiosi e ufficiali dei carabinieri aventi lo scopo di trattare una via di uscita per Cosa nostra dopo la sconfitta del maxiprocesso e la furia dello Stato in seguito a Capaci e via D’Amelio.
Ma si è trattato di montature mediatico-giudiziarie prive di riferimenti al contesto politico generale in cui avvenivano questi contatti. Tanto per citare un episodio che contrasta frontalmente con l’ipotesi del negoziato Stato-mafia, fu proprio nell’autunno del 1993 che il presidente del Consiglio Ciampi, scosso dalle stragi e intenzionato a riformare i servizi di sicurezza, propose a chi scrive di diventare supervisore degli stessi con l’incarico di ripulirli e riorganizzarli.
Avrei dovuto agire sulla scia di quanto appena scoperto dal direttore del Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza), Francesco Paolo Fulci, circa una parte del Sismi coinvolta in attività relative alle stragi del biennio 1992-1993. Ciampi mi promise che non avrebbe apposto il segreto di Stato sulle indagini giudiziarie che avrei messo in moto rivoltando il letame accumulato in quegli ambienti.

Mi tirai indietro, nonostante l’insistenza e il forte disappunto del presidente. Mario Almerighi, unico sopravvissuto tra i miei più cari amici, mi aveva spinto energicamente a rifiutare. Non avevo l’esperienza e le competenze indispensabili per un incarico del genere. I miei avversari-sottoposti mi avrebbero «cucinato» rapidamente.

Il progetto di riforma dell’intelligence fu abbandonato, e Ciampi si dimise il 13 gennaio 1994, meno di due mesi dopo il nostro ultimo incontro, per cedere il posto al primo governo Berlusconi.

Sono ancora grato, perciò, a Mario Almerighi. Se avessi accettato la proposta di Ciampi, sarei stato cacciato su due piedi dal nuovo presidente senza aver avuto il tempo di concludere alcunché.

Ma la storia non è finita. Meno di tre anni più tardi, nel maggio del 1996, il mio ego fuori misura gioì nell’apprendere che avevo fatto passare un brutto quarto d’ora all’intero mondo occidentale. Il pubblico ministero di Aosta David Monti, indagando sulla megatruffa internazionale chiamata Phoney Money, aveva arrestato un faccendiere legato alla Lega Nord, Gianmario Ferramonti. Un tizio di peso, in grado di andare a cena con il capo della polizia, con Umberto Bossi, e con un influente personaggio legato a Clinton e alla Cia, Enzo De Chiara, per discutere della nomina di Maroni a ministro dell’Interno di Berlusconi.

Ferramonti era autore di un fax a De Chiara del 25 novembre 1993, sequestrato dal giudice Monti. Il suo compare veniva invitato ad attivarsi per far intervenire con urgenza gli amici d’oltreoceano. Occorreva sventare un «pericolo mortale» per l’Occidente. Il governo italiano stava per nominare come supervisore dei servizi segreti il professor Pino Arlacchi, noto comunista. Il faccendiere rimase un po’ di tempo in galera, finché Monti non perse l’inchiesta perché avocata dal procuratore di Aosta. E non ci furono in seguito rinvii a giudizio. Tutto morì lì. Ho rintracciato di recente il fax di cui sopra, che riproduco qui di seguito.

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