L’assassinio di Nizar Banat, palestinese critico verso l’ANP

24 Giugno 2021 20:00 Patrizia Cecconi

Poco prima dell’alba di oggi, giovedì 24 giugno, superando in violenza e sopraffazione gli stessi militari israeliani - usi a pestare, arrestare illegalmente e uccidere palestinesi di ogni età - circa 25 militari dell’Autorità palestinese, agendo come uno dei tristemente famosi squadroni della morte dei regimi fascisti, hanno fatto saltare con cariche esplosive, senza che ve ne fosse motivo, porte e finestre dell’abitazione di Nizar Banat a Dura, cittadina del distretto di Hebron-Al Khalil e, secondo la ricostruzione dei familiari, lo hanno violentemente e immotivatamente percosso con manganelli e con un bastone di ferro e quindi trascinato a terra, seminudo e sanguinante e caricato nella camionetta che lo avrebbe portato in caserma.

Poche ore dopo veniva comunicato, con un messaggio whatsapp, come si trattasse di comunicazione senza importanza, che Nizar Banat era morto. Così, accidentalmente. Così è morto un dissidente che da circa 7 anni esponeva le sue critiche verso Abu Mazen e l’ANP.

Nizar, insieme a Amjad Shehad era candidato per il partito Libertà e dignità alle elezioni che Abu Mazen, in combutta con Israele e graziosamente accondiscendente verso gli Usa, ha sospeso per l’ennesima volta. Da qui la sua critica ancor più infuocata contro la corruzione e la collaborazione dell’Anp con le forze occupanti, fino a chiedere all’UE di sospendere i finanziamenti all’Autorità palestinese data la sospensione delle elezioni decisa da Abu Mazen.

Nizar Banat non è il primo ad essere ucciso, purtroppo, e il suo arresto ma forse anche la sua morte, erano già annunciati visto che era stato più volte arrestato, più volte percosso e la sua casa era stata colpita da molti proiettili sparati come avvertimento contro la sua attività politica.

Per onestà va ricordato che sia sotto Hamas che sotto l’Anp i dissidenti hanno vita dura e che nelle rispettive prigioni, nel corso degli anni, alcuni di loro hanno perso la vita. Questo non giova davvero alla causa palestinese ma rappresenta un tassello di quell’antica pratica conosciuta come divide et impera che conviene solo all’occupante. Sono stati casi sporadici, per fortuna, ma ci sono stati e, normalmente, sono passati in fretta nel dimenticatoio, ma stavolta non sembra che questo brutale assassinio finirà in un angolo, a meno che la commissione d’indagine prontamente costituita per accertare la verità, come comunicato dal primo ministro Mohammad Shtayyeh, non sia un éscamotage per l’ insabbiamento, pratica che come italiani conosciamo fin troppo bene.

Una commissione che vede tra i suoi componenti anche un generale dell’intelligence come se i 25 componenti dello “squadrone della morte” si fossero mossi di loro spontanea volontà creà qualche legittima perplessità! Del resto, la linea diplomatica da imbonitori, che ufficialmente chiede che i responsabili materiali vengano puniti, suona tanto come un depistaggio dalle responsabilità a monte, quelle che vanno oltre l’agire dei sicari, ma che sono responsabilità politiche e morali e investono l’intero apparato dell’Anp a partire dal suo presidente. Forse la commissione d’inchiesta non sarà che fumo negli occhi visto che il responsabile primo di questo omicidio, anche se non direttamente mandante, mantiene, per quanto screditato, il suo ruolo di presidente collaborando ancora con la “sicurezza” israeliana e seguitando ancora ad elemosinare un buffetto gratificante dagli Usa.

Intanto, mentre si parla di commissione d’inchiesta, l’Anp, non soddisfatta del danno arrecato a tutto il popolo palestinese che realmente vuole una svolta e alza il vessillo della dignità al di sopra delle singole fazioni, ha mandato i suoi militari a sciogliere le manifestazioni di protesta usando gas e manganelli al pari degli occupanti con i quali seguita vergognosamente a collaborare avendone purtroppo appreso anche i metodi repressivi più brutali.

Non basta gridare Palestina libera, laica e democratica per sentirsi eroi della resistenza, e questo l’hanno capito molti militanti o ex militanti di Fatah, sia in Palestina che all’estero i quali, sempre meno timidamente, chiedono un reale cambiamento.

Ormai Abu Mazen, il “Karzai della Palestina”, come lo chiamava Arafat quando gli venne imposto, ha fatto il suo tempo e l’ha fatto anche male. Anche la trappola di Oslo, in cui lo stesso Arafat cadde o che erroneamente scelse, ormai ha mostrato tutte le sue insidie e i suoi tranelli, ma c’è ancora chi si ostina a dire che se Rabin non fosse stato ucciso sarebbe andata diversamente, dimenticando che Rabin era quel gentiluomo che faceva spezzare le braccia ai bambini della prima intifada. Prova che la sudditanza psicologica verso gli israeliani “meno peggio” è dura a morire! Ma l’Anp non è più monolitica e neanche Fatah lo è, e forse saranno proprio i dissidenti come Nizar Banat a modificare questa politica suicida che offe a Israele la possibilità di raggiungere il suo obiettivo fagocitando terra, vite e diritti dei palestinesi in cambio di un becero mantenimento di potere colluso e corrotto capace solo di disgregare il tessuto sociale della Palestina a meno che non riprenda forza quel fiume sotterraneo, mai prosciugato, della resistenza autentica.

Ora, accanto ai martiri resi tali da Israele giace anche Nizar, un martire reso tale dall’intolleranza della fazione al potere. I martiri, come disse un palestinese della Striscia di Gaza alcuni anni fa, sono come semi dormienti sotto la terra, basterà qualche goccia di rugiada perché sboccino come germogli di autentica resistenza contro l’oppressore e i suoi complici, interni ed esterni.

Ma non sarà il fumo negli occhi di una commissione d’inchiesta a dir poco pleonastica, se non addirittura falsificatrice della realtà, a recidere quei germogli.

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