Zelensky negli Usa: perché per il Washington Post il viaggio è stato un mezzo fallimento

In un articolo pubblicato sul Washington Post David Ignatius spiega che nel corso del viaggio di Zelensky negli Usa, che in realtà è stato un “summit di guerra”, si sono evidenziate ancora una volta le diverse prospettive con cui il presidente ucraino e quello Usa osservano il conflitto in corso.

Tra “pace giusta” e armi a lungo raggio

Non solo Biden ha negato ancora una volta a Kiev i missili a lungo raggio (per evitare la terza guerra mondiale), ma ha anche evitato accuratamente di parlare di “vittoria” sui russi, slogan brandito ben dodici volte dal suo ospite nel corso dei suoi discorsi (al Congresso e nella conferenza stampa successiva all’incontro con Biden).

Biden, al contrario, che sa perfettamente che “questa guerra quasi sicuramente non finirà con la totale eliminazione del potere bellico russo”, ha parlato della necessità di “fermare Putin” e di arrivare a una “pace giusta”.

Espressione, quest’ultima, non gradita da Zelensky che l’ha derubricata a “concetto filosofico”, aggiungendo che, da presidente, non può accettare “compromessi” sulla “sovranità, la libertà e l’integrità territoriale” del suo Paese.

C’è una differenza notevole tra pace e restituzione dei territori all’Ucraina, spiega giustamente Ignatius, dal momento che la pace, esplicitiamo, potrebbe non comportare necessariamente il ritorno di Kiev ai vecchi confini.


Il 2023 come il 1951? Ucraina e Corea

Differenze di approccio notevoli, che nell’anno prossimo dovranno trovare una soluzione, scrive Ignatius, dal momento che occorrerà trovare convergenze su cosa si intende per “successo” ucraino. È chiaro che Ignatius reputa che Zelensky debba addivenire a più miti consigli, abbracciando una prospettiva meno messianica e più realista.

Anche per Harlan Ullman è arduo immaginare una vittoria ucraina, come anche una vittoria della Russia. Ne ha scritto su The Hill poco prima del viaggio di Zelensky negli Usa, concludendo che due sono gli esiti più probabili di questa guerra.

Il primo vede un conflitto congelato al modo della guerra di Corea, con scontri improduttivi prolungati; il secondo è che i costi di questo stallo diventino col tempo insostenibili non solo dai duellanti, ma anche dagli Stati Uniti e dalla Nato, da cui la necessità di trovare una soluzione diplomatica.

Riportiamo quanto scrive Ullman non solo perché la sua visione ha convergenze e dà forma alla prospettiva suggerita da Ignatius, contraddicendo le narrazioni trionfaliste dilaganti, ma anche per un altro cenno significativo.

Gli interessi di Washington, scrive il cronista, in questa guerra non combaciano con quelli di Kiev. E quando gli Usa decideranno di uscirne, potrebbero farlo alquanto bruscamente, com’è avvenuto nella guerra afghana, trovando un accordo con i talebani e tagliando fuori Kabul dall’intesa. Nel caso specifico, Kiev e Zelensky. Brutale, ma realista.

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