“Non esistono armi magiche. Non lo sono né gli F-16 né altre”, Così il generale Mark Milley, capo degli Stati Maggiori congiunti degli Stati Uniti, in un briefing tenuto al Pentagono mercoledì ha fatto svaporare l’ennesima sciocchezza propalata sulla guerra ucraina.
Gli F-16, che arriveranno dopo l’estate, cioè probabilmente dopo la controffensiva di Kiev, non daranno una “svolta” al conflitto, come peraltro non è accaduto per le precedenti armi magiche (i carri armati, i Patriot etc.).
Peraltro, Milley ha chiarito i costi dell’operazione e fatto un confronto con l’aviazione russa: “Dieci F-16 costano un miliardo di dollari. Aggiungi i costi di mantenimento, un altro miliardo di dollari. Quindi stai parlando di 2 miliardi di dollari per dieci aerei. I russi hanno 1.000 caccia di quarta e quinta generazione”.
Quest’ultima specifica è analizzata in dettaglio dal sito Military Watch, che spiega come gli F-16 saranno un target non molto impegnativo per la contraerea russa, in particolare per gli S-400, e si riveleranno non all’altezza dei più moderni jet russi.
Così, la forte pressione per consegnare gli F-16 a Kiev, lungi dall’avere un’altrettanto forte motivazione tattico-strategica, ha invece una rilevante motivazione economica.
I Paesi europei che invieranno i jet, ormai obsoleti, dovranno riassestare il loro parco giochi aereo ricorrendo allo zio Sam, che vedrà in tal modo affluire altri miliardi al già pingue comparto militar-industriale.
La guerra è un affare lucroso, da cui la spinta a proseguire nonostante le possibilità di vittoria di Kiev siano più che minime – come ben sanno a Washington – come altrettanto folle è stato difendere Bakhmut a tutti i costi per nove mesi, dando vita a un inutile mattatoio.
Proprio la caduta di Bakhmut deve aver destabilizzato non poco l’establishment di Kiev e i suoi sponsor, che per mesi avevano rassicurato il mondo sulla tenuta della città.
Zelensky ne aveva anche spiegato il motivo all’Associated Press: caduta Bakhmut, affermava, c’era il rischio che all’interno dell’Ucraina e tra i suoi riluttanti alleati emergessero spinte per aprire negoziati.
Ed è probabilmente per evitare spinte in tal senso che il ministro della Difesa britannico Ben Wallace si è precipitato a Kiev subito dopo la caduta di Bakhmut, in una visita a sorpresa nella quale ha incontrato il suo omologo Oleksii Reznikov.
Un copione già visto: quando nell’aprile dello scorso anno Kiev stava concludendo un accordo negoziato con Mosca, Boris Johnson volò a sorpresa in Ucraina per spiegare a Zelensky che l’Occidente non era d’accordo, vanificando tutto (Responsible Statecraft).
Il Regno Unito da tempo si è ritagliato il ruolo di mosca cocchiera del conflitto, come annota Jonathan Cook su Declassified Uk in un articolo dal titolo: “La guerrafondaia Gran Bretagna sta spingendo l’Europa verso la catastrofe ucraina”. E Wallace, che peraltro aspira a sostituire Stoltenberg come segretario della Nato (Guardian), è uno degli interpreti più appassionati di tale ruolo.
La guerra durerà tempo, ha dichiarato Milley, che non può uscire dal copione che gli è imposto. Nel frattempo, si moltiplicano le iniziative di pace, ultima delle quali, di testimonianza, quella avviata dal Vaticano.
Iniziative benemerite, che devono essere intraprese anche se hanno scarse o nulle possibilità di riuscita. Se ci è lecito scomodare la storia, accadde così anche per la guerra del Vietnam, nel corso della quale, in parallelo agli scontri, si dipanarono diverse iniziative volte a dar vita a negoziati formali tra le parti, e ciò fin dai primi mesi dell’intervento americano.
La guerra, si sa, finì non grazie a tali tentativi, ma per via militare. La storia ha il vizio di ripetersi, ma sperare negli imprevisti non è esercizio vano.
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