“Killers of the Flower Moon”: Scorsese e l’immagine dei lupi

di Leonardo Persia*

All’inizio degli anni ’20, quella degli Osage era la popolazione più ricca del mondo. Trascinata in Oklahoma dal governo americano, in una contea creduta senza valore e invece piena di petrolio, questa tribù d’indiani cadde nelle grinfie del Capitale. Si spersonalizzarono, comprarono auto e autisti, divennero dipendenti dell’alcol. E soprattutto si trovarono nel mirino dei bianchi affaristi e rapaci, in un momento storico che, dopo la fine della I guerra mondiale, consolidava l’America a capo del mondo. Killers of the Flower Moon racconta il selvaggio West proseguito con altri mezzi, un’epica di gangster armati intenti a impadronirsi delle ricchezze dei colonizzati con ogni mezzo possibile.

Già nel ’21, il Congresso degli Stati Uniti stabilì una misura razzista: ogni nuovo milionario indiano, ritenuto incapace di gestire la propria ricchezza, veniva soggetto a restrizioni e controllo delle spese, con il necessario affiancamento di un supervisore bianco. Infuriò, di conseguenza, l’iniziativa privata, costituita da truffe assicurative e caccia all’eredità; quindi, da numerose uccisioni di affidati a cura dei tutori e di mogli sposate per interesse. Il risultato fu un centinaio di morti in una decina d’anni e un ovvio aumento della ricchezza degli impuniti assassini. “È più facile condannare un uomo per aver preso a calci un cane che per aver ucciso un indiano”, si dice nel film. Scorsese, insieme a Eric Roth, lo ha scritto attingendo ai fatti reali del libro Gli assassini della terra rossa (2017) di David Grann, che, rispetto alla pellicola, dà assai più spazio alla nascita dell’FBI (precedentemente BOI), risolutore del caso su iniziativa di un J. Edgar Hoover alle prime armi.

Curioso che Leonardo Di Caprio, qui uno dei mascalzoni protagonisti (Ernest Burkhart), venga intrappolato, per tramite dello sceriffo Tom White (Jesse Plemons), proprio dal direttore dell’ufficio investigativo che lui stesso aveva incarnato in J. Edgar (2011) di Clint Eastwood. In effetti, nella parte finale, è come se Burkhart/Di Caprio si trovasse di fronte a sé stesso, a tu per tu con le proprie abiezioni (nemmeno Hoover è stato certo immacolato). Trattasi di un personaggio banale quanto complesso, misterioso e ambiguo. Reduce di guerra, viene spinto dal mefistofelico zio William Hale (Robert De Niro), allevatore di bestiame, a sposare l’indiana Mollie (Lily Gladstone), preda succulenta. Il rapporto con la donna risulta davvero strano: lui le vuole bene, ma, come più volte dichiara, ama anche i soldi; quindi instaura con lei un assurdo legame, dove la malcapitata, affetta da diabete, si trova a subire iniezioni d’insulina avvelenate, somministratele dal marito, succubo, oltre che dello zio, di due medici criminali, i fratelli James e David Shoun (Steve Witting e Steve Routman).

L’autore del film conosce bene la psicopatologia del Capitale, le sue correlazioni anche private, magnificamente analizzate in più di mezzo secolo di grande cinema, e realizza un’opera polifonica dove però ci si concentra soprattutto sul piano familiare e individuale. Killers of the Flower Moon è un (tardo) western, un gangster-movie e un family melodrama.

I tre generi fondamentali del cinema classico hollywoodiano si danno il cambio, delineando l’evoluzione criminale e capitalista della storia d’America, dalla conquista all’omicidio alla follia domestica. Raffigura dunque un privato insano e squilibrato quanto quello d’una collettività fuori da ogni controllo. Hale seduce il nipote dinanzi a un caminetto, chiaro simbolo di casa e focolare. Il Fuoco, si dirà dopo, rappresenta per gli Osage il padre (e il Sole il nonno, la Luna la madre). Lo è anche in quel momento, tecnicamente risolto in un campo/controcampo, dove il succedersi alternativo delle facce sancisce l’assimilazione di un volto da parte di un altro. Da parte del Padre, cioè di un principio maschile di comando e tradizione. Con la medesima modalità espressiva, si ripeteranno, nel corso del film, contagi e vampirismi, anche a tre. E quando, in prigione, i due protagonisti si ritroveranno a parlare, ognuno dalla rispettiva gabbia, si comprende appieno la loro somiglianza, l’essere entrambi prigionieri di un’uguale ossessione.

Il fuoco di casa indica quello dell’avidità di cui parlava Buddha, un bruciare indomabile di passione malsana e ardore forsennato; sono le fiamme devastatrici del patriarca, un drago che sputa zolfo preludendo all’inferno, alla terra bruciata, all’olocausto (che, etimologicamente, indica proprio la totale devastazione da fuoco). Successivamente, quelle fiamme d’inferno incendieranno l’intero schermo. Nel momento in cui la casa di una delle sorelle di Molly, Reta (Janae Collins) e del marito Bill (Jason Isbell) viene fatta esplodere con la dinamite. O quando una luce fiammante circonda abitazione e anima di Ernest, forse in preda ai rimorsi, in una scena che omaggia sicuramente gli stilemi infuocati del melodramma, l’incendio di Atlanta in Via col vento (1939).

Scorsese è un autore cinefilo e benché questo film sia girato con la sordina, in uno stile piano e raccolto, che deve qualcosa al world cinema di cui da anni il regista attivamente s’interessa, non rinuncia al gioco dei rimandi, alla memoria della settima arte. All’inizio, gli Osage sono raccontati con le immagini di un film muto; nel finale, un loro rito, atto a costruire coi corpi un fiore vivente, viene ripreso dall’alto, sempre più alto, al pari d’una coreografia di Busby Berkeley. Gli uomini bianchi inzuppati di petrolio, un’immagine horror intranarrativa, che non a caso segue quella dei cavalieri del Ku Klux Klan, ci ricorda James Dean sommerso d’oro nero ne Il gigante (1956) e Carrie/Sissy Spacek ricoperta di sangue. Di sicuro è presente la lezione di uno dei grandi capolavori del muto, Greed (1924), che pure parla di ossessione per i soldi, di rovine familiari, svelando i nessi del Capitale con la colonizzazione, con il West. Scorsese sembra ricordarsi di Erich von Stroheim in quegli scorci di vita brulicante dietro i vetri o sulle scalinate poste sullo sfondo del quadro. Pure la durata straordinaria di tre ore e mezza proviene dall’estensione temporale di quel dimenticato Maestro viennese.

Gli occhi di Scorsese non riflettono però soltanto il cinema classico. La stanza dove Burkhart viene fustigato dallo zio, uno squarcio delirante dove Hale dichiara d’essere massone, ha il pavimento striato, a losanghe. Sembra di essere in uno degli incubi di Twin Peaks (1990, 2017). E lynchiana è quella mano della domestica rinvenuta tra le macerie della casa esplosa. Inoltre, Mollie sospetta del coniuge, come in un film di Hitchcock. Sospetta e tuttavia non lo lascia: sembra incredibile, ma è così. Anche in tal caso, è possibile parlare di manipolazione o di contagio? D’altronde il film mostra l’asservimento degli Osage ai propri carnefici, una generale passività delle vittime dinanzi al proprio destino. La Storia stessa non è forse piena di queste gabbie psicologiche? Oggi che l’Europa risulta affetta da masochismo, la politica criminale riscuote ovunque il consenso degli elettori e la follia auto-distruttrice è al diapason, dovremmo ancora stupirci di un nipote plagiato dallo zio e da una moglie devota al coniuge nemico?

Il film impressiona proprio riportandoci alla realtà del presente, mostrandoci cos’è davvero l’America, cosa l’Occidente, in che consiste la nostra storia di bianchi civilizzati e sfruttatori, inevitabilmente razzisti. La vicenda principale stabilisce cortocircuiti con il coevo massacro di Tulsa, “piccola Africa” d’America (anch’esso mostrato attraverso un cinegiornale muto), dove addirittura le vittime passano per colpevoli: s’insinua che gli omicidi delle Osage Hills sono opera “di negri, non di gente nostra”. Esplora ugualmente l’antisemitismo americano (“tu e tuo zio siete come i maledetti ebrei!”), nonché il razzismo verso gli indiani e i deboli tutti. Hale giudica perverso che il nipote faccia l’amore con la moglie, per giunta diabetica.

Ogni aspetto del Potere viene messo in luce. Sono preponderanti la religione e il moralismo. Hale e Ernst pregano e sono cattolici; lo zio raccomanda al nipote di non sbronzarsi in pubblico. Un po’ dubbioso, gli chiede se gli piacciono le donne, in nome di un fondamentalismo sessuale essenzialmente predatore. Assistiamo al culto delle merci, alla corruzione ottenuta con belle auto. Ci si spinge fino al trafugamento delle tombe. Gli uomini divengono oggetti, in nome del Capitale. Uno dei killer assoldati da Hale, Kelsie Morrison (Louis Cancelmi), confessa in tribunale i suoi crimini senza batter ciglio, con un’argomentazione che anticipa quella di Adolf Eichmann. Ammette, con logica demente, di essere tornato più volte sul luogo del delitto, in quanto località amena, adatta a far festa.

Non ci si dimentica allora, a proposito di razionalità abnorme, della scienza asservita, con quei due fratelli dottori che scherzano con la morte degli indiani e sono intenti alla preparazione di pozioni venefiche. Scorsese mette in gioco anche lo spettacolo, con un esemplare e inaspettato epilogo di show radiofonico, dove lui stesso, coraggiosamente, risulta implicato. Per ultima, espone la giustizia fasulla. Hale e Burkhart non sconteranno l’ergastolo. Il primo avrà anche una lunga vita, conclusasi in una confortevole casa di riposo. Si può dire quindi che tutto il film costituisce un incontro ravvicinato con i predatori della civiltà, con i lupi detentori di ricchezza e potere. “Can you find the wolves in this picture?” legge Ernest in un libro sulla storia degli Osage. Senza accorgersi che il vero lupo è lui e quelli come lui. Sin dagli inizi della loro storia d’amore, Mollie lo aveva paragonato a un coyote.

Non tutti hanno apprezzato il film. Per via dell’eccessiva durata, per la lentezza, per uno squilibrio narrativo causato da una terza parte legale ritenuta inutile e ripetitiva. Non avrebbe convinto nemmeno il disegno psicologico dei due protagonisti e tantomeno l‘interpretazione ghignante dei due divi. È vero che Scorsese non ha più il fervore dei tempi passati, ma dei suoi (presunti) difetti di vecchiaia ha fatto virtù. La sua è una regia “seduta”, contemplativa, che possiede il punto di vista, e anche la profondità, di un uomo incanutito e per questo saggio. Ci consegna un’opera senile dal ritmo più disteso, con lo sguardo maggiormente distaccato, come lo furono i lavori tardivi di Ford, Hawks o Walsh. All’epoca, in quei film, ritenuti stanchi dalla critica tradizionale, fu scorto invece dai più accorti un tributo commovente a una modernità involontaria; l’espressione della fine di un’epoca, pronunciata attraverso una dissoluzione sublime della classicità.

Killers of the Flower Moon è moderno senza dimenticare la tradizione. Risente, si è detto, del cinema internazionale, europeo e dei “tre mondi”, che Scorsese continua instancabilmente a studiare, senza mai dimenticare la lezione di Hollywood. Procede alternando totali e piani ravvicinati, è cinema da camera e cinema bigger than life, profondamente visivo e nondimeno parlatissimo. L’incedere calmo, che a molti è parso monocorde, si dispiega attraverso numerose inquadrature rapide senza tenere a bada i movimenti della macchina da presa: diversi stili si intersecano e si armonizzano. Il montaggio magistrale di Thelma Schoonmaker rende tutto assai fluido, regalando all’insieme un’invisibilità classica della camera e del montaggio, tanto più paradossale se si considerano l’oggettiva frammentazione e mobilità del girato e il gran numero di personaggi, di voci narranti, di flash-back e atipici flash-forward, di tempi incrociati e di soggettive con o senza corpo.

È inoltre un film che, eticamente, non intende affatto spettacolarizzare la materia. Dagli allettamenti ingannevoli dello spettacolo prende le distanze con un finale pungente, demistificatore dei media e della cosiddetta comunicazione di massa, oggi più potenti che mai. La stessa visionarietà di tante sequenze si stempera in immagini essenziali, quotidiane. Il che non significa che siano malriuscite, oppure che ciò comprometta lo sguardo d’insieme. Oggi è raro trovare, a Hollywood o altrove, uno sguardo politico altrettanto lucido e dettagliato, oltretutto intriso di profonda spiritualità. Asciuttissima la scena della morte di un indiano, accompagnato dagli avi nell’aldilà. Le farneticazioni di Mollie malata non hanno alcuna forzatura visiva. Chissà se Mollie non sia Giobbe, chissà che la donna non rappresenti la nemesi di Ernest. Vede entrare una civetta nella stanza da letto, si trova a fianco Hale che le parla di Dio. Lei stessa gli chiede, e si chiede, se è reale o una sua immaginazione.


* Leonardo Persia, operatore culturale, direttore artistico di rassegne cinematografiche e piccoli festival indipendenti mai allineati e in controtendenza, ha sempre considerato il cinema una via privilegiata alla conoscenza, al viaggio, all'incontro, alla scoperta. Ama attirare l'attenzione sui film meno conosciuti e riconsiderare quelli poco compresi. Ha scritto recensioni e saggi per "Rapporto Confidenziale" e "Lo Specchio Scuro".

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