“Vi racconto la resistenza del profugo”. Intervista allo scrittore palestinese Jehad Yousef

15 Aprile 2023 20:57 Geraldina Colotti

«Sono uscito. Tenevo il foglio con il numero di telefono come fosse dinamite. L’ho gettato nella spazzatura e ho proseguito. Ora non pensavo più a riabbracciare mia madre, pensavo ai giovani che non erano stati così fortunati, e che erano morti nel deserto o durante gli interrogatori per le torture dei diversi corpi di sicurezza».

Termina così un capitolo dell’emotivo diario di viaggio, raccolto nel libro di Jehad Yousef, Huellas de una memoria (Tracce di una memoria), pubblicato da Editorial Trinchera, in Venezuela. Dopo un peregrinare in Medioriente, in Spagna e a Cuba, il Venezuela ha finito infatti per essere il luogo di residenza di Jehad. Medico pediatra in esilio dal 1979, militante del Fronte Democratico per la liberazione della Palestina, deputato al Consiglio Nazionale Palestinese, e Direttore Generale dell'Unione Palestinese dell'America Latina, Yousef si era già fatto conoscere come scrittore in un primo volume, Crónica de siete días en Palestina (Sultana del Lago editores), che racconta la violenza dell’occupazione con gli occhi del profugo che torna, dopo anni di assenza.

Nel passaggio citato in apertura, Jehad ricorda l'incontro con un ufficiale israeliano che, quand’era giovanissimo, dopo un duro interrogatorio, gli propose di diventare un collaboratore. E lui rifiutò. Abbiamo intervistato lo scrittore sui temi dei suoi libri e sul suo impegno, che non è mai venuto meno, anche fuori dalla sua terra negata.

Nel libro Huellas de una memoria, il pellegrinaggio di Jehad mostra le principali tappe del dramma del suo popolo tra il secolo scorso e oggi: l'occupazione israeliana, ma anche l'atteggiamento dei paesi arabi e la situazione nei campi profughi. Qual è il tuo sguardo oggi?

La situazione del popolo palestinese è difficile, complicata e drammatica. Nel secolo scorso, fino alla prima guerra mondiale è stato sotto l'occupazione turca o ottomana, poi sotto l'occupazione britannica. Poi, più di metà della Palestina, sotto occupazione israeliana. Nel 1948, la Cisgiordania e Gerusalemme Est sono finite sotto l'amministrazione civile e militare del regno giordano, e la Striscia di Gaza sotto amministrazione egiziana. Poi, nel 1967, tutta la Palestina è passata sotto l'occupazione israeliana. Così hanno cercato di cancellare l'identità indipendente del popolo palestinese. Anche la nostra terra, i mari e i fiumi vennero divisi tra quei paesi. Gran parte della nostra gente è rimasta intrappolata sotto i regimi di questi paesi come cittadini di seconda classe e come rifugiati. Questi ultimi, in molti paesi sono stati e sono privati di diritti elementari e fondamentali, vengono anzi perseguitati non solo dallo stato d’apartheid, ma anche da alcuni regimi arabi. Personalmente ho imparato che senza lotta, senza perseveranza, è molto difficile raggiungere i propri obiettivi e nella vita bisogna avere degli obiettivi e un orizzonte. Logicamente il cammino non è tutto rose e fiori, ma il cammino si fa camminando e guardando sempre avanti. L'onestà, la trasparenza, la chiarezza sono anche le chiavi del corretto percorso che ti porta all'obiettivo prefissato.

Qual è oggi la tua attività politica come rappresentante del Consiglio nazionale palestinese e come direttore generale dell'Unione palestinese dell'America Latina?

Sempre è presente la Palestina, la nostra causa. Scrivo per la Palestina, denuncio le pratiche dello stato di apartheid attraverso i media, contatto e unisco persone, partecipo a congressi palestinesi come quelli dell’UPAL, e alla commissione politica del Consiglio nazionale palestinese. Dovunque vada, porto con me la causa palestinese.

Cronaca di sette giorni in Palestina racconta un viaggio di ritorno, nel 2006, lo stupore e l’indignazione per l’aumento delle colonie. E ora?

Il mio viaggio in Palestina è avvenuto dopo 27 anni di esilio forzato: ho acquisito la nazionalità venezuelana, ho chiesto il visto, come venezuelano, all'ambasciata israeliana a Caracas prima che fosse chiusa dal comandante Chávez. Il mio obiettivo era visitare la mia patria e la mia. L'ironia della vita e dello stato di occupazione è che un palestinese nato in Palestina da genitori e bisnonni palestinesi ha bisogno di un permesso o di un visto dall’occupante per visitare la sua famiglia e attraversare i giorni dell'infanzia e dell'adolescenza. La mia odissea è iniziata con gli interrogatori delle forze di sicurezza israeliane negli aeroporti di Parigi e Tel Aviv: passando per i punti di controllo, i check point, fino ad arrivare a notte fonda a casa mia per abbracciare mia madre e la mia famiglia. Questi posti di blocco rendono difficile la vita e il transito dei palestinesi, soprattutto per raggiungere le loro scuole e università, i loro posti di lavoro e gli ospedali, infatti decine di donne hanno partorito in ambulanza a causa della lunga attesa. Sono rimasto scioccato, molto triste e impotente nel vedere gli insediamenti ebraici costruiti sulle nostre proprietà, confiscate dall’occupante, così come le altre città e villaggi palestinesi. Le immagini del muro della vergogna che separa palestinesi da palestinesi mi hanno ricordato il muro di Berlino: terre, villaggi e famiglie sono state lasciate fuori dal muro e altre dentro il muro. Coloro che vivono in Cisgiordania e hanno meno di 60 anni non possono visitare i luoghi santi di Gerusalemme e gli anziani sono tenuti a chiedere il permesso all'occupante. Tuttavia, un israeliano può visitare liberamente l'intero territorio palestinese. Anche visitare il mare è molto limitato per i palestinesi. La stragrande maggioranza dei palestinesi che vive in Cisgiordania non ha potuto visitare il mare, nonostante la distanza tra la Cisgiordania e il Mar Mediterraneo si percorra in poche ore di macchina.

Da giovanissimo hai lavorato anche dall’altra parte, nelle imprese di costruzione israeliane, e racconti le dure condizioni imposte ai manovali palestinesi. Qual è la situazione attuale? Cosa pensi delle proteste in corso contro il governo Nethanyau?

I palestinesi hanno bisogno di permessi per lavorare dall’altra parte, e questi vengono concessi a pochissime persone. Tuttavia, la stragrande maggioranza lavora e attraversa il confine illegalmente, viene trattata come manodopera a basso costo, nell'edilizia o nei campi. Il loro stipendio è la metà di quello di un lavoratore israeliano e non hanno assicurazione sulla vita o previdenza sociale, è vietato iscriversi a sindacati, morti e infortuni sul lavoro non sono risarciti. La situazione attuale è peggiore di prima, perché leggi razziste come la legge nazionalista approvata dalla knesset, il parlamento israeliano, concedono diritti civili e nazionali solo agli ebrei, emarginando così la minoranza palestinese che vive all'interno dello “stato israeliano”, cioè nell'area occupata nel 1948. L'ascesa dei fascisti e l'estrema destra al potere, che intensificano i loro piani di insediamenti, omicidi, arresti, distruzione di case e l'espulsione dei palestinesi da Gerusalemme, e i tentativi di usurpare i luoghi santi, insieme alle leggi della Pena Massima ai prigionieri e la minaccia di espulsione e privazione della cittadinanza a chi resiste, tutto questo rende la vita difficile e minaccia la popolazione palestinese. Siamo di fronte a un regime di occupazione coloniale e di apartheid peggiore del regime di apartheid del Sudafrica, nel secolo scorso.

Nei tuoi libri c'è un omaggio alla figura materna. Cos'è per te la libertà delle donne dopo tanti anni di vita personale e professionale in paesi come Cuba e Venezuela?

Mia madre è stata una figura importante nella mia vita, tutte le donne palestinesi hanno un doppio ruolo: uno, lottare per i propri diritti contro le leggi maschiliste, per ottenere pari diritti nella società palestinese, e l'altro è lottare insieme agli uomini palestinesi contro l'occupazione.

Un'altra Giornata della Terra vissuta sotto occupazione. Per quando, con quali mezzi e con quali alleati, la liberazione della Palestina?

Lottiamo per la liberazione dei palestinesi e delle palestinesi, per la terra palestinese, perché la terra è la nostra identità, è la nostra terra e i nostri raccolti. La amiamo e ci prendiamo cura di lei, come amare e prendersi cura dei nostri figli, si tratta delle nostre radici e della nostra storia. L'unico modo, l'unico mezzo, è la resistenza popolare e l'unità del nostro popolo, con il sostegno di tutti gli uomini e le donne libere di questo pianeta, con i partiti e i governi progressisti che credono nella causa del nostro popolo.

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