«I governi occidentali non possono impartire lezioni di democrazia a Putin». Sergio Romano


di Eugenio Cipolla

C’è un libro uscito da qualche giorno che per gli esperti est Europa (in particolare Russia) non rappresenta una grande novità in termini di informazioni sulla vita del presidente russo Vladimir Putin. Lo ha scritto Sergio Romano, professore universitario, diplomatico di lungo corso, editorialista del Corriere della Sera e, ovviamente, esperto di Russia. “Putin e la ricostruzione della grande Russia” (edito da Longanesi) ripercorre in maniera non dettagliatissima ma sicuramente consona l’ascesa di Putin al potere e il suo tentativo di rendere nuovamente grande un paese che dopo Eltsin era al tracollo, cercando al contempo di dare anche una spiegazione razionale (e non di parte) agli avvenimenti cruciali per il destino della geopolitica, come la guerra in Donbass, la riunificazione della Crimea alla Russia, le tensioni in Georgia e il crescente scontro con la NATO. Vediamone alcune, cercando di eliminare del tutto ogni commento superfluo, così da evitare ogni tipo di influenza sulle considerazioni dell'ex ambasciatore NATO a Mosca.


CRIMEA: «Non appena costituito, il nuovo governo ucraino, presieduto da Arsenij Yatsenyuk, abrogò una legge sulle minoranze linguistiche voluta da Yanukovich nel 2012. La legge prevedeva che la lingua parlata in una regione da una percentuale della popolazione superiore al 10% divenisse, in quella regione, lingua ufficiale. Grazie a quella norma il russo era diventato una lingua ufficiale della Crimea: dopo l’abolizione, il russo sarebbe stato soltanto una parlata locale. E’ molto probabile che altri piani per l’annessione della Crimea alla Russai esistessero da tempo. Ma la nuova legge sulla lingua, per coloro che volevano la operazione il più rapidamente possibile, fu una giustificazione perfetta. Il Parlamento della penisola anticipò al 16 marzo 2014 il referendum previsto per una data più lontana e gli abitanti furono chiamati alle urne per rispondere a due domande:«Sei a favore del ricongiungimento della Crimea con la Russia come soggetto federale della Federazione russa?» «Sei a favore del ripristino della Costituzione del 1992 e dello status della Crimea come parte dell’Ucraina»? I votanti furono 1.536.290. Alla prima domanda risposero Sì 1.495.043 (97,32%), alla seconda 41.247 (2,68%)».


L’UCRAINA ATLANTICA: «Quello che ha maggiormente colpito nel corso degli ultimi 20 anni è stata, se mai, la prudenza di cui Mosca ha dato prova nei casi in cui i cittadini russi del Baltico erano trattati come un corpo estraneo a cui occorreva far capire, con una certa durezza, che i padroni erano cambiati. A Mosca sembrarono rendersi conto che certi atteggiamenti antirussi, là dove lo stalinismo era stato particolarmente tirannico, rientravano nell’ordine delle cose e dovevano essere pazientemente accettati. Non era difficile immaginare che le reazioni di Mosca sarebbero state molto diverso il giorno in cui il problema da affrontare fosse stato quella delle comunità russe in Crimea e nell’Ucraina occidentale. Alcuni paesi europei (quelli che volevano annettere l’Ucraina alla Nato) sembrano aver trattato la questione con leggerezza. Avrebbero dovuto chiedersi anzitutto se all’organizzazione militare dei Paesi atlantici convenisse avere fra i soci del club un Paese in cui vi sarebbe stata una quinta colonna russa forte di circa sei o sette milioni di persone. Se avessero riflettuto, si sarebbero resi conto che la migliore delle soluzioni possibili, anche e soprattutto per gli ucraini, sarebbe stata un’Ucraina neutrale, né russa né altantica».


LA LOTTA TERRORISMO SENZA LA RUSSIA: «Quando le rivolte arabe contagiarono la Siria, nel 2011, la Russia corse il rischio di essere cacciata dal solo Paese della regione in cui avesse un fedele alleato. […] A Washington qualcuno premeva perché anche gli Usa adottassero, come durante le presidente Clinton e Bush una linea interventista. Dopo i colossali errori del suo predecessore, Barack Obama esitava e credeva di uscire dall’imbarazzo tracciando una linea rossa al di là della quale gli Stati Uniti non avrebbero assistito, senza agire, ai massacri siriani: l’uso di armi chimiche. Ma quando le armi chimiche furono usate, a quanto pare, nei sobborghi di Damasco, Obama cercò disperatamente il modo per sottrarsi a un impegno di cui, dopo gli esempi di Afghanistan e Iraq, era impossibile calcolare le conseguenze. Provò a coinvolgere il Congresso in decisioni che negli Stati Uniti tradizionalmente appartengono alla Casa Bianca, ma la via d’uscita gli fu offerta da Putin o, più probabilmente, dal suo ministro degli Esteri, Sergej Lavrov. Grazie ai buoni uffici della Russia, Bashar Al Assad avrebbe rinunciato alle armi chimiche e Mosca si sarebbe adoperato perché l’impegno assunto dalla Siria venisse rispettato. […] Non sappiamo se le armi chimiche siano state interamente eliminate, ma sappiamo che i russi sono da allora in Siria […] Hanno cambiato il quadro strategico della regione, hanno dimostrato di essere militarmente forti e abili, hanno reso impossibile ogni accordo che non tenga conto dei loro interessi, hanno dimostrato che non è possibile combattere lo Stato islamico senza la Russia».


LE LEZIONI DI DEMOCRAZIA DELL’OCCIDENTE: «Anziché affidarsi a leader saggi e prudenti, molti popoli sembrano preferire i demagoghi, i tribuni della plebe, i caudillos. Anche Putin appartiene per molti aspetti a un club frequentato da Erdogan, Al Sisi, Orbam, Kaczynski, Netanyahu, Xi Jinping, Lukashenko, per non parlare dei loro numerosi cugini in Africa e Asia. Ma ha anche altre caratteristiche. Deve governare un enorme spazio geografico popolato da una moltitudine di gruppi nazionali e religiosi. E’ il leader di un grande paese che ha interessi legittimi e ambizioni comprensibili. E’ responsabile di una potenza che è anche un tassello indispensabile per l’amministrazione di un mondo caotico e pericoloso. Possiamo deplorare molti aspetti del suo carattere e della sua politica. Ma vede sempre meno persone in Occidente che abbiano il diritto di impartigli lezioni di democrazia. Occorrono 541 giorni in Belgio per formare un governo. Occorrono due elezioni politiche a distanza di sei mesi per formare un governo in Spagna. Occorrono tre commissioni bicamerali e due riforme costituzionali approvate dal Parlamento, ma sottoposte a referendum popolare, per cercare di modificare la costituzione in Italia. Nell’UE sono sempre più numerosi i cittadini che invocano il ritorno alle sovranità nazionali, ma in alcuni Stati nazionali la sovranità nazionale è contestata da regioni che chiedono il diritto di secessione. Mi chiedo: la democrazia è ancora un modello virtuoso che l’Europea delle democrazie malate e gli Stati Uniti delle sciagurate avventure mediorientali e del nuovo razzismo hanno il diritto di proporre alla Russia?»

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