Con il recente attacco alla polizia in Myanmar da parte di terroristi descritti da Reuters come "insorti musulmani", e il continuo terrorismo che affligge le Filippine, dove le forze governative sono impegnate a combattere contro i militanti del cosiddetto "Stato islamico", sembra che il terrorismo si sia diffuso nel Sudest Asia in modo chiaro. Secondo l’analista e esperto di questioni internazionali Tony Cartallucci, non è un caso che l'improvviso slancio della violenza terrorista sia arrivato proprio nel momento in cui il cosiddetto "pivot to Asia" sia fallito, fornendo agli Stati Uniti un nuovo pretesto altrettanto conveniente per rientrare e stabilirsi in tutta la regione. E in un modo “molto più insidioso”.
“Gli Stati Uniti hanno apertamente cospirato per stabilire e ampliare una presenza militare permanente nell'Asia sudorientale come mezzo per affrontare, circondare e contenere la Cina per decenni.”, sottolinea Cartallucci nel suo ultimo articolo su Neo Journal.
Già nella guerra del Vietnam, con i cosiddetti "documenti del Pentagono" rilasciati nel 1969, è stato rivelato come il conflitto fosse semplicemente parte di una strategia più grande intesa a contenere e controllare la Cina. Mentre gli Stati Uniti stavano perdendo la guerra del Vietnam e la possibilità di utilizzare i vietnamiti come forza cuscinetto contro Pechino, prosegue l’analista, la lunga guerra contro Pechino è continuata altrove come ha sottolineato un rapporto del 2000 del Project for a New American Century (PNAC) dal titolo “Rebuilding America’s Defenses” (PDF) che sentenzia: “è tempo di aumentare la presenza delle forze americane nel sudest asiatico”.
Prevenendo le difficoltà di stabilire truppe nella zona, il rapporto precisa:
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