Mentre l’Ucraina affonda, l’Unione Europea si orienta verso un’economia di guerra

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

Il 12 aprile, l’Institute for the Study of War, think-tank ultra-atlantista riconducibile all’eminente rappresentante neoconservatore Frederick Kagan, ha riconosciuto che «l’esaurimento delle difese aeree fornite dagli Stati Uniti derivante dai ritardi nella ripresa degli aiuti militari statunitensi all’Ucraina, combinato con i miglioramenti nelle tattiche di attacco russe, hanno portato a una crescente efficacia degli attacchi missilistici e droni russi contro l’Ucraina senza un drammatico aumento delle dimensioni o della frequenza. di tali scioperi […]. In assenza di una rapida ripresa degli aiuti militari statunitensi, le forze russe possono continuare a infliggere gravi danni alle forze ucraine in prima linea e alle infrastrutture critiche ucraine nelle retrovie, anche con il numero limitato di missili». Ne consegue che «la sempre più efficace campagna di attacchi russi in Ucraina minaccia di limitare le capacità di guerra a lungo termine di Kiev e di stabilire le condizioni operative affinché la Russia possa ottenere vantaggi significativi sul campo di battaglia».

Considerazioni dello stesso tenore sono state formulate il giorno successivo dal comandante in capo delle forze armate ucraine Oleksandr Syrsky, secondo cui la situazione sul fronte orientale dell’Ucraina è «significativamente peggiorata negli ultimi giorni» a causa della penuria di munizioni che affligge l’esercito ucraino e dei sempre più intensi sforzi offensivi della Russia, che approfittando del clima caldo e secco ha incrementato portata e ritmo dei suoi attacchi corazzati nelle aree di Bakhmut, Lyman e Pokrovsk.

La sconfitta dell’Ucraina che va profilandosi sempre più chiaramente conferisce un significato ben preciso all’atteggiamento reiteratamente bellicoso assunto dai leader europei. A partire dal presidente francese Emmanuel Macron, secondo cui lo schieramento diretto e formale di forze Nato in territorio ucraino rappresenta un’opzione da tenere in considerazione, e del presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, che ha invocato un modello di produzione bellica analogo a quello sviluppato rispetto ai vaccini e al gas naturale, attraverso la messa a punto di un sistema di appalti congiunto nel comparto della difesa. Nonché mediante il sostegno della Banca Centrale Europea (Bce), chiamata a calmierare i tassi d’interesse e intervenire in difesa dei titoli di Stato – secondo il consolidato paradigma operativo sfoggiato durante la pandemia da Covid-19 – onde evitare pericolose dismissioni di massa ad opera degli investitori privati. La rete di sicurezza garantita dalla Bce proteggerebbe i bilanci pubblici in disavanzo dal rischio di violente crisi finanziarie imputabili all’aumento degli spread, ma la sua attuazione richiede una modifica sostanziale del nuovo patto di stabilità e più in generale delle regole di bilancio europee. A Bruxelles, sostiene l’economista Emiliano Brancaccio, «c’è chi ritiene che il nuovo patto sia nato già vecchio, poiché non tiene conto della necessità di adeguare il sistema produttivo alle montanti esigenze belliche. Un inasprimento dei fronti di guerra potrebbe rendere inevitabili clausole più generose per favorire il deficit e l’inflazione». Si potrebbe perfino arrivare alla mutualizzazione dei debiti pubblici europei, finora pregiudicata dal veto della Germania e dei Paesi gravitanti nell’orbita di Berlino ma potenzialmente risdoganabile in caso di necessità.

Anche perché una svolta propriamente detta, ha spiegato la Von der Leyen, «ci aiuterà a ridurre la frammentazione e ad aumentare l’interoperabilità. Ma per farlo dobbiamo inviare collettivamente un segnale forte all’industria. Per questo motivo valuteremo come facilitare gli accordi di off-take o accordi di acquisto anticipato in cui forniamo garanzie. Questo darebbe alle nostre aziende del settore della difesa ordini stabili e prevedibili nel lungo periodo. Aumenteremo il sostegno al ramp-up industriale, come stiamo facendo ora con le munizioni attraverso il programma Asap […]. Questo finanziamento ci consentirà di raddoppiare all’incirca la produzione europea di munizioni, portandola a oltre 2 milioni di proiettili all’anno entro la fine del 2025». Cioè quando la guerra russo-ucraina sarà con ogni probabilità conclusa ormai da tempo.

«Identificheremo – ha aggiunto la presidente della Commissione Europea – i progetti di difesa di interesse comune, per concentrare gli sforzi e le risorse dove l’impatto e il valore aggiunto sono maggiori. E ci concentreremo sull’innovazione per garantire che l’Europa abbia quel vantaggio nelle nuove tecnologie, che vediamo impiegate in tutto il mondo in diversi conflitti. Questo deve essere uno sforzo veramente europeo. Ed è per questo che sono orgogliosa di annunciare che istituiremo un Ufficio per l’Innovazione della Difesa a Kiev, che avvicinerà sempre di più l’Ucraina all’Europa e consentirà a tutti gli Stati membri di attingere all’esperienza sul campo di battaglia e alle competenze in materia di difesa industriale». Riferendosi ancora all’Ucraina, ha sottolineato che «è tempo di discutere dell’utilizzo dei profitti inaspettati dei beni russi congelati per acquistare congiuntamente equipaggiamenti militari per l’Ucraina. Si tratta di un’assunzione di responsabilità da parte dell’Europa per la propria sicurezza. La semplice verità è che non possiamo permetterci il lusso di stare tranquilli. Non abbiamo il controllo sulle elezioni o sulle decisioni in altre parti del mondo. Con o senza il sostegno dei nostri partner, non possiamo permettere che la Russia vinca».

Le esternazioni pronunciate da Macron e dalla Von der Leyen risultano diverse ma complementari, perché la prima punta a legittimare lo scenario prefigurato dalla seconda. Agitare lo spauracchio russo mira in altri termini a identificare il nemico esistenziale, così da indurre l’opinione pubblica europea ad accettare privazioni altrimenti inconcepibili in nome della sacra difesa dei “valori occidentali”. La finalità ultima sembra chiarissima: espandere il processo di privatizzazione e riorientare la spesa pubblica per porre quanti più fondi possibile al servizio di una vera e propria economia di guerra, destinata ad assorbire parte assai consistente delle risorse stanziate in tempo di pace a favore di altri settori, come sanità e istruzione. In un contesto, peraltro, caratterizzato dalla graduale erosione del potere d’acquisto dei salari, collegato alla rivalutazione delle materie prime imputabile a sua volta alla disarticolazione delle catene di approvvigionamento tradizionali prodotta dalla crisi pandemica e dal conflitto russo-ucraino, oltre che dalla strategia “neo-protezionista” statunitense intesa a segmentare la globalizzazione in vasi molto meno comunicanti rispetto al passato.

La mobilitazione di quote crescenti del bilancio pubblico a beneficio del riarmo, del resto, è in corso da almeno un decennio, nel corso del quale – certificano i dati forniti dalla Banca Mondiale – l’Unione Europea ha incrementato la spesa militare di quasi il 25%.

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