Il “rimpasto” di Erdogan e il futuro delle relazioni con la Russia


di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico


Dopo aver ottenuto il suo quinto mandato presidenziale, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha attuato un inaspettato, radicale rivoluzionamento della preesistente struttura di governo che ha investito tutti i Ministeri di maggiore rilevanza.

Alla Difesa è stato piazzato il Capo di Stato Maggiore Güler. All’Economia si è invece insediato Mehmet Simsek, manager di spessore i cui trascorsi presso Merrill Lynch sono risultati particolarmente – e prevedibilmente – graditi al mondo della grande finanza, come si evince dalla consistente e repentina svalutazione dei Credit Default Swap (Cds) a cinque anni sui titoli di Stato turchi verificatasi non appena è divenuta ufficiale la notizia relativa alla sua nomina.

La svolta di maggiore rilievo interessa tuttavia il Ministero degli Esteri, a capo del quale è stato piazzato l’ex direttore del Mit (Millî Istihbarat Teskilâti, il servizio di intelligence turco) Hakan Fidan in sostituzione di Mevlüt Çavusoglu, accreditatosi lo scorso anno come mediatore rispetto alla guerra russo-ucraina e spesosi più recentemente per il ripristino delle relazioni diplomatiche con la Siria guidata dal presidente Bashar al-Assad. Una mossa, quest’ultima, volta a ridurre il coefficiente di conflittualità in Medio Oriente e a spingere la Turchia su una posizione meno “avventurista” rispetto a quella che aveva caratterizzato l’epoca di Ahmed Davutoglu. Vale a dire il professore universitario che dapprima in veste di ministro degli Esteri e successivamente di premier aveva elaborato e messo in atto la cosiddetta “profondità strategica”, una dottrina geopolitica orientata a espandere l’influenza turca a 360° secondo le direttrici “panturca” e “panislamica” che aveva portato la Turchia a cavalcare le “primavere arabe” e a fomentare il sanguinosissimo conflitto siriano.

I madornali errori di calcolo, emblemizzati dalla caduta della Fratellanza Musulmana in Egitto, dalla sconfitta del fronte islamista in Siria e dalle ricadute profondamente negative prodotte dalla “profondità strategica” turca sui rapporti con Paesi chiave quali Russia e Iran, indussero Erdogan a marginalizzare Davutoglu in favore di Çavusoglu. Sotto la sua guida, la Turchia, Paese membro della Nato dal 1952, non si è limitata a rifiutarsi di imporre sanzioni contro la Russia, ma ha addirittura triangolato sistematicamente verso l’Europa le eccedenze di petrolio russo e prodotti raffinati ricavati dal greggio di Mosca. Al punto da accreditarsi come imprescindibile «piattaforma commerciale tra la Russia e i suoi sanzionatori occidentali».

I dati relativi al 2022 evidenziano inoltre che il fatturato commerciale tra i due Paesi ha superato i 62 miliardi di dollari, e che i beni russi sono arrivati a coprire qualcosa come il 15% circa delle importazioni complessive della Turchia. Nel primo quadrimestre del 2023, la Turchia ha importato merci russe per un controvalore di 17,2 miliardi di dollari, dopo essere entrata per la prima volta nel novero dei primi cinque esportatori verso la Russia – soltanto nel 2021 si collocava all’undicesimo posto.


Il futuro delle relazioni con la Russia

La relazione tra Ankara e Mosca sembra destinata a consolidarsi ulteriormente, come suggerito dall’inserimento del rublo nel paniere di valute impiegabili per regolare il commercio bilaterale e dalla definizione congiunta di una tabella di marcia in materia di cooperazione economica finalizzata a elevare il fatturato commerciale annuo a 100 miliardi di dollari.

Il processo di ricalibratura della politica estera turca avviato con il licenziamento di Davutoglu e portato avanti sotto l’egida di Çavusoglu potrebbe trovare il suo punto d’approdo con la nomina di Fidan. Nonostante le lacune manifestate dal Mit in relazione al tentato golpe contro Erdogan dell’estate 2016 abbiano danneggiato la sua reputazione, Fidan ha continuato ad esercitare una notevole influenza sul presidente, specialmente in materia di politica estera. Fidan, scriveva «Der Spiegel» nel 2018, «ha contribuito ad allontanare la Turchia dall’Arabia Saudita e da Israele e a instaurare rapporti collaborativi con Paesi come la Russia e l’Iran. Mantiene stretti legami con Qasem Soleimani, il comandante della divisione Quds, l’unità d’élite della Guardia Rivoluzionaria iraniana. Gli Stati Uniti lo hanno persino accusato di aver trasmesso a Teheran informazioni segrete di servizi americani e israeliani».

Al Ministero degli Interni, in compenso, è rimasto Süleyman Soylu. Cioè colui che, subito dopo l’ufficializzazione del successo alle elezioni conseguito da Erdogan, dichiarò testualmente dinnanzi a una folla oceanica: «elimineremo chiunque stia causando problemi al nostro Paese, comprese le truppe americane». Parole di fuoco, che sembrano tuttavia rispecchiare in maniera piuttosto fedele gli orientamenti della popolazione: da un sondaggio realizzato dalla società Gezici nel dicembre del 2022 è emerso che, su un campione di 2.500 cittadini turchi interpellati, il 90% circa indentificava gli Stati Uniti come una nazione “ostile”. Di contro, il 72,8% auspicava il mantenimento di buoni rapporti con la Russia, considerata un Paese amico che contribuisce positivamente all’economia turca dal 62,6% degli intervistati.

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