La diaspora dei palestinesi di Gaza nelle parole dell’ex vicedirettore del Mossad (e parlamentare)

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

Abbiamo già trattato in maniera approfondita l’anatomia dell’operazione Spade di Ferro condotta da Israele nella Striscia di Gaza, cercando di interpretarla e dedurne le finalità alla luce di documenti strategici come quello redatto nel 1982 dall’analista israeliano Oded Yinon, di quello stilato dal Ministero dell’Intelligence israeliana e di quello pubblicato dal centro studi israeliano Mizgav. Sono molti i fattori che inducono a ritenere che l’obiettivo perseguito dalla classe dirigente israeliana consista nello svuotamento della Striscia di Gaza in vista della sua incorporazione nello Stato israeliano, e nell’annessione più o meno concomitante della Cisgiordania, previa colonizzazione della stessa attraverso la moltiplicazione degli insediamenti facilitata dal trasferimento del controllo sui territori occupati dall’autorità militare a quella civile. Il tutto, beninteso, in perfetta armonia con uno dei punti programmatici stabiliti dal governo guidato da Benjamin Netanyahu all’atto dell’insediamento, in cui si afferma che «il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile sull’intera Terra d’Israele. Il governo promuoverà e svilupperà gli insediamenti in tutte le parti della Terra d’Israele: Galilea, Negev, Golan, Giudea e Samaria».

Il problema è che il gioco portato avanti da Israele risulta scopertissimo agli occhi delle classi dirigenti dei Paesi confinanti, la cui prossimità geografica li rende automaticamente i principali “candidati” ad assorbire la popolazione palestinese di cui Israele intende liberarsi. A partire dalla Giordania, Paese che intrattiene relazioni diplomatiche con Israele dal 1994 annoverabile tra i più affidabili partner regionali del cosiddetto “Occidente collettivo”. In seguito allo scatenamento dell’Operazione Spade di Ferro da parte di Israele, i vertici dello Stato giordano hanno evidenziato senza sosta le conseguenze catastrofiche, sia sul piano umanitario che di sicurezza regionale, che la linea d’azione portata avanti da Tel Aviv stava producendo. Sia re Abdullah che la regina Rania si sono espressi in termini molto duri nei confronti di Israele, mentre il governo ha provveduto a richiamare l’ambasciatore. Come riporta il quotidiano «The New Arab», «la diplomazia giordana non è mai stata così attiva, e anche per una buona ragione. Ciò che accade a Gaza potrebbe benissimo ripetersi in Cisgiordania, costringendo milioni di persone a cercare rifugio in Giordania». Le valutazioni formulate dalla pubblicazione araba trovano riscontro nelle parole di fuoco pronunciate dal primo ministro giordano Bishr al-Khasawneh, secondo cui «qualsiasi tentativo di espellere o creare le condizioni per sfollare i palestinesi dalla Gaza o dalla Cisgiordania rappresenta una linea rossa che la Giordania considererà alla stregua di una dichiarazione di guerra». Il concetto è stato ribadito con forza dal ministro degli Esteri Ayman al-Safadi, che dinnanzi al Parlamento di Amman ha messo in chiaro che gli sforzi che Israele sta sostenendo per favorire un esodo di palestinesi dalla Cisgiordania a est del fiume Giordano «rappresentano una linea rossa per la Giordania. Faremo ricorso a tutte le nostre capacità per evitarlo perché si tratta di una violazione del diritto internazionale».

Su posizioni sostanzialmente analoghe si è collocato l’Egitto, che tramite il presidente al-Sisi ha reso noto che un eventuale esodo di palestinesi dalla Striscia di Gaza verso il Sinai incoraggiato da Tel Aviv metterebbe a repentaglio la pace siglata tra Begin e Sadat nel 1979. Al presidente egiziano, del resto, non erano certo sfuggite le indiscrezioni raccolte e pubblicate dal «Financial Times», secondo cui Netanyahu avrebbe attivato i contatti con le controparti europee affinché convincessero le autorità del Cairo ad accogliere un numero imprecisato di profughi palestinesi, conformemente alle indicazioni contenute all’interno dello “studio di fattibilità” dell’operazione realizzato dal centro studi Mizgav. Stando alla ricostruzione del quotidiano finanziario britannico, Netanyahu avrebbe avanzato questa proposta ai rappresentanti di Paesi come la Repubblica Ceca e l’Austria, ma «i principali Paesi europei, in particolare Francia, Germania e Regno Unito, l’avrebbero respinta bollandola come irrealistica». Il motivo, spiega il giornale londinese, sarebbe da rintracciare proprio nella «costante resistenza» opposta dall’Egitto all’ipotesi di accogliere i rifugiati da Gaza anche su base temporanea. Il timore del Cairo è che «Israele cerchi di usare la crisi per far ricadere sull’Egitto i suoi problemi con i palestinesi».

Secondo il sempre ben informato «Middle East Eye», pur di vincere l’irriducibile opposizione del Cairo, le autorità israeliane si sarebbero addirittura prodigate per organizzare un ambizioso piano volto a cancellare i debiti internazionali dell’Egitto attraverso la Banca Mondiale e l’Unione Europea. Ma a dispetto della critica situazione finanziaria in cui versa il Paese, l’Egitto si è opposto con forza. In breve, ha rilevato sempre a «Middle East Eye» l’ex diplomatico egiziano Ayman Zaineldine, «la spinta ad espellere i palestinesi da Gaza ha dimostrato che Israele può rappresentare una minaccia diretta alla sicurezza nazionale dell’Egitto. La guerra, le azioni e le dichiarazioni sempre più aggressive da parte di Israele hanno portato l’Egitto e la maggior parte dei Paesi arabi a riconsiderare le loro politiche nei confronti di Israele».

Ecco quindi affacciarsi, alla luce di questo mutamento di approccio sfavorevole ad Israele da parte di gran parte dei suoi vicini, proposte alternative in merito al “ricollocamento” dei palestinesi. Tra cui spicca quella avanzata da Ram Ben-Barak, che in qualità di ex vicedirettore del Mossad e parlamentare alla Knesset per il partito Yesh Atid di Yair Lapid ha proposto ai microfoni dell’emittente israeliana «Channel-12» di “ridistribuire” 2,5 milioni di palestinesi in un centinaio di Paesi. Suo avviso, «è meglio essere rifugiato in Canada che a Gaza. Distribuiamo gli abitanti della Striscia di Gaza nel mondo. Sono 2,5 milioni, ogni Paese se ne prende 25.000, 100 paesi. È umano, deve essere fatto. Se il mondo ha davvero l’intenzione di risolvere il problema palestinese, ha la capacità di farlo». Una sorta di “seconda Nakba”, di cui si è più volte parlato a partire dall’insediamento del governo Netanyahu.

La prospettiva tratteggiata da Ben-Barak risulta altamente emblematica, in quanto proveniente non da uno dei tanti estremisti di cui si compone il governo israeliano, quali il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, il ministro per la Sicurezza Nazionale Iramar Ben-Gvir, o il ministro del Patrimonio culturale Amichai Eliyahu – il quale ha recentemente definito lo sganciamento di un ordigno nucleare sulla Striscia di Gaza “una possibilità” – ma da un esponente della componente più moderata del cosiddetto “arco costituzionale” israeliano.

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